“Le ferite bisogna farle respirare
LOQUOR
Come ogni 4 maggio: Grande Torino!
affinché possano cicatrizzare”.
Isebelle Allende
Ogni volta che nel mio studio volgo lo sguardo alla mia destra trovo tre cose che hanno significato tre importanti passaggi della mia vita: la foto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, una piccola statua di Josemaria Escrivà De Balaguer e la foto del Grande Torino. E ogni volta che mi soffermo per qualche attimo su di loro, sugli “Invincibili”, faccio fatica a trattenere le lacrime per la commozione. Il cuore batte velocemente, i ricordi si accavallano, e il tempo viene ripercorso con tutte le tappe con cui il Toro ha segnato la mia esistenza. Fino a cinque anni il cuore era stato solo un muscolo, qualcosa messo dentro di me unicamente per pompare sangue e distribuirlo. Lo sentivo battere quando magari salivo velocemente delle scale, ma non capivo. Poi c’è stato un giorno in cui ho realizzato a cosa serve sul serio un “Servizio Pubblico”, e nella fattispecie a cosa serve la Rai. Essa custodisce lo scrigno dei nostri ricordi, li rende trasversali , intoccabili e, soprattutto, disponibili ad ogni generazione di italiani che si sussegue. Senza l’infaticabile ostinazione della Rai di voler ogni giorno anche rappresentare pezzi della nostra memoria nazionale, forse non avrei mai incontrato il Grande Torino in un caldo pomeriggio di tanti anni fa, quando si viveva in un Paese proteso ancora a credere in qualcosa e con una limpida fiducia in se stesso. Non che non ci fossero problemi, non esiste una vita senza la loro presenza, ma sentivamo ancora di essere Italia.
Gli anziani raccontavano a noi bambini i ricordi non molto lontani della II Guerra Mondiale e della guerra civile, e noi potevamo vedere nelle loro mani i segni della fatica e nei loro occhi l’orgoglio di aver ricostruito il Paese. La nazionale di calcio e la Ferrari in “Formula 1” era il momento in cui la nazione italiana trovava motivo di senso attraverso lo sport. Niente riempie più di gioia un italiano quando vede una Ferrari sfrecciare prima sul traguardo, lasciandosi dietro tedeschi e inglesi. La “Rossa” è segno tangibile del nostro ingegno e anche della nostra atavica allegria e furore con cui affrontiamo la vita. A noi italiani dateci un traguardo, mostrateci qualcosa per cui la nostra volontà e il nostro ingegno si incontrano, e non c’è coraggio che non si trovi dentro per affrontare ogni tipo di difficoltà. E’ la nostra storia a raccontarlo, una storia non dipinta di gloria ma di sentimento infinito per la vita. Vogliamo vivere, ma vogliamo soprattutto amare, ecco perché gli attuali tempi non ci rappresentano: per qualche misterioso e maligno motivo, stiamo tradendo qualsiasi cosa ci abbia preceduto. In quel caldo pomeriggio di molti anni fa da una trasmissione Rai arrivava nitida, fluente e calda la voce di uno speaker a rievocare le vicende di una squadra di calcio a metà tra progetto razionale realizzato e dono di Dio, “colore” di un Paese ancora rintronato da anni di dittatura e dai disastri di una guerra. E poi c’erano stati una serie infinita di lutti, di inaccettabili lutti, e il dolore faticava ad andare via dall’animo dei nostri avi.
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Perdere una sequela di parenti e amici nel giro di pochi anni, non è solo un calvario ma anche detronizzazione convulsa di sentimenti e ricordi. Valentino Mazzola e compagni passavano leggiadri sui campi da gioco e sui racconti delle prime pagine dei giornali, e facevano qualcosa di più che lenire il dolore, lo cicatrizzavano. E sappiamo cosa sono le cicatrici, ovvero l’esito fisiologico del processo di guarigione di un danno. Bisogna rompersi in mille pezzi per tornare a combaciare con la verità di chi siamo, e il Fascismo era proprio questo che aveva fatto: aveva rotto il nostro spirito in mille pezzi. Qualcuno ha scritto che “una cicatrice è ciò che avviene quando la parola si fa carne”, ed il Grande Torino prende su di se il compito di farsi “carne” per una nazione intera, tornando a sublimare l’italianità in ogni angolo di mondo. Le parole dello speaker della Rai più srotolavano le vicende degli Invincibili, più avveniva in corso la mutazione genetica del mio cuore: da muscolo stava diventando cenacolo di sentimenti. Fu una autentica svolta copernicana, perché non era più il suo battito ad interessarmi, ma piuttosto la capacità di “contenere” vita. Quello è il momento in cui si comincia a vivere, tutto quanto successo fino ad allora è stato solo una fase di “riscaldamento”, una inconsapevole attesa di poter scendere finalmente in campo. Ora chi ti osserva potrà finalmente sapere chi sei e quanto vali, nel bene e nel male. Finito il racconto dello speaker Rai, improvvisamente mi ritrovai con un problema da gestire apparentemente insolubile: e ora cosa faccio? Da qualche minuto amo il Toro, e soprattutto sono tifoso del Toro… ma cosa vuol dire? E poi dove si trova Torino? A 5 anni, al netto dell’amore dei tuoi genitori e dei luoghi del tuo quartiere, non conosci niente. Figuriamoci Torino. In seguito avrei scoperto il suo essere stata la capitale d’Italia e che lì c’era la Fiat, la quale per noi meridionali non è mai stata semplicemente un’azienda di automobili ma un segno della benedizione del destino.
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Giungere da un promontorio da dove in alcune giornate chiare e luminose si poteva addirittura avere l’illusione di vedere l’Africa ad un luogo distante mille chilometri per occuparsi di un rosario di lunotti e portiere da montare, è molto più del viaggio di Ulisse verso le “Colonne d’Ercole”, nell’insano ma irresistibile desiderio di provare a scoprire cosa ci sia “oltre”. E’ follia della speranza. Ma l’amore fa crescere anche la conoscenza, nel senso che a forza di osservarlo esso diventa ogni giorno familiare sin dentro i più piccoli dettagli. Imparai tutto sul Grande Torino, e la conseguenza fu anche provare il dolore di come tutto era finito tragicamente su un costone di Superga. Il dolore si è stanziato in qualche parte non solo della mia anima, ma persino della mia coscienza, e non se ne è più andato. Ogni tifoso del Toro sa bene di cosa stia parlando, è il mistero che ogni 4 maggio, ieri, oggi e per sempre, spinge una moltitudine si persone a salire a Superga per ricordare una squadra patrimonio dell’Italia intera. Fausto Coppi, Gino Bartali, Tazio Nuvolari, la Ferrari e il Grande Torino è come se facessero parte della Costituzione repubblicana, sono valori della dignità ritrovata di un popolo. Quanto si aveva bisogno di dignità in quel momento, e i nostri Padri Costituenti lo capirono così bene da fondare la nostra Carta sul lavoro. “Mi padre mi portò al campo del Testaccio pe vederli- mi raccontò una volta un noto ristoratore romano-… ammazza quanto erano forti Carmè.
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Erano partiti lenti e per un attimo noi romanisti ci eravamo illusi… ma poi si sono scatenati e ce ne hanno fatti sette… non lo fecero per presunzione o per umiliarci, lo fecero perché erano belli… ammazza quanto erano belli, Carmè… nun se po capì se non li hai visti… nun se po proprio capì… erano così belli che io e quelli vicino a me ad un certo punto ci siamo messi ad applaudirli… erano come la sceneggiatura perfetta di un film, nun se poteva non applaudì. Ero un bambino con tutta la vita davanti e non sapevo che non avrei più rivisto tanta bellezza. Ed io ho vissuto tanto, Carmè. Ho vissuto tanto e ho girato il mondo… e ho visto tante di quelle cose… ma loro no, non li ho più rivisti… nun te dico il dolore quando se ne sono andati… lascià perde, và… io vojo bene al Toro… tutti gli volevamo e gle volemo bene… non c’entra il tifo… lascia perdè, davero…”. Guardo la loro foto ancora una volta, con la stessa intensità di una prima volta di tante infinite prime volte. L’amore vero è questo. Sono un figlio del 4 maggio e mi sta bene così, e forse prima o poi dovrebbero istituire la giornata mondiale delle cicatrici dell’anima. Passandoci la mano sopra solitamente si riesce a leggere il nome di chi te l’ha procurata. Metto su “The Thrill Is Gone” di B.B. King. Ora posso far scendere qualche lacrima, ne ho proprio bisogno.
Di Carmelo Pennisi
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