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“Era meglio col telefono
a gettoni”.
da Twitter
Debito e colpa nella lingua tedesca vengono espresse più o meno con la stessa parola(schuld), cosa che ha scatenato in questi ultimi decenni, causa vari patti di stabilità europei vari, frotte di analisi psicoanalitiche dell’animo e della coscienza dei tedeschi. L’Italia è un Paese dove notoriamente si legge e si studia poco ma dove anche, per uno strano paradosso del destino, c’è una corsa affannosa a voler dare autorevoli opinioni su ogni cosa. Si “acchiappa” velocemente qualcosa da un telegiornale o da un sito internet, e immediatamente ci si auto convince di essere virologi, economisti o chissà cosa altro. Ne discende come solo chi non abbia mai riflettuto seriamente su una cosa come il “Padre Nostro”, possa meravigliarsi della precisione dei tedeschi di far incrociare debito e colpa nella stessa parola. O solo chi non ha mai aperto una pagina di un libro di economia può far coincidere l’assenza di debiti in bilancio di un azienda, con la capacità della stessa di poter operare sul mercato. Non si legge, non si studia e, cosa più importante, non si riflette sul significato delle parole ascoltate e pronunciate.
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Capita, allora, di assistere sempre più spesso, nell’orgia contra debito ormai circolante nel Vecchio Continente, dell’elogio di un bilancio tenuto intonso dal colore rosso, segno, secondo alcuni, di una pronta capacità di operare sul mercato. Nessuno, nemmeno per un secondo, a fermarsi a chiedersi come mai alcuni club privi di debiti, o dalla situazione debitoria irrilevante, non abbiamo operato massicciamente sull’ultimo mercato calciatori.”Noi possiamo fare debiti e la Juventus no”, è una delle tante sciocchezze a cui le orecchie debbono sottostare, visto come non ci si possa sempre astrarre dai rumori di fondo del mondo. Dovrebbe essere quasi ovvia l’idea di come non sia il debito l’unico dettaglio di un bilancio a stabilire la capacità di azione di un’azienda o di uno Stato, considerato come il debito possa essere sia un segnale di crisi, sia un segnale di ricorso al credito per investimenti espansivi. Nemmeno l’andamento degli utili netti possono da soli rendere chiari lo stato dell’arte di un’azienda, considerato come sia alquanto difficile, per l’uomo della strada, perdersi con perizia nei dati di una “Gestione Caratteristica” di un qualsiasi bilancio(i casi degli utili netti boom di Banca Intesa nel bilancio 2017 e della contrazione degli stessi utili nel bilancio di Facebook nel 2019 sarebbero esempi sintomatici per valutare come a volte si possa essere tratti in inganno da dati appresi senza valutarne il contesto)
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Ma l’intenzione di questo scritto non è quella di perdersi in tecnicismi di bilancio, potenziali processori di noia per i lettori, ma piuttosto di parlare di uno dei tanti errori a cui, a mio modesto parere, l’Uefa è incorsa negli ultimi decenni e che ha contribuito a non dare coerenza armonica ai bilanci dei club: i premi in denaro per le vittorie o i passaggi di turno nelle coppe europee da lei organizzate. Trattasi di denaro difficilmente collocabile in una “Gestione Caratteristica” di un club calcistico, perché fondare un valore di produzione su delle vittorie sarebbe, pressappoco, come andarsi a giocare tutte le possibilità di una qualsiasi attività lavorativa al tavolo della roulette di un casinò. E a questo tavolo hanno disinvoltamente giocato molte società, contando su vittorie poi non arrivate e costringendo l’opinione pubblica a sorbirsi torme di giornalisti affannosamente protesi a spiegare quale clamoroso danno economico sia stato il non essersi qualificati in Champions, mettendo senza ritegno degli allenatori sul banco degli imputati rei di averli fatti precipitare quasi davanti al tribunale fallimentare. Alcuni commenti fatti su Gennaro Gattuso dalla stampa napoletana per la mancata qualificazione in Champions da parte degli azzurri sono state tra il ridicolo e il surreale. Fosse stato possibile, si sarebbe pretesa la richiesta di far comparire l’allenatore calabrese davanti alla giustizia ordinaria per un risarcimento danni.
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C’è da chiedersi perché l’Uefa abbia voluto “finanziarizzare” il concetto di vittoria, trascinando in una logica da Superenalotto tutti quei club che hanno nella voce ricavi e margine di profitto un vero tallone d’achille. Occorre ricordare come per quasi un secolo la logica dello sport più seguito al mondo era la seguente: si spendono più soldi non per fare ancora più soldi, ma semplicemente per vincere. Secondo alcuni, in quei tempi arcaici, il calcio era amministrato in modo disordinato e dilettantesco, non come oggi dove finalmente il concetto d’impresa ha contaminato il modo di amministrare i bilanci di un club. Sarà per questo che l’azienda Barcellona oggi stia rischiando di fallire a causa di un miliardo e quattrocento milioni di euro di debiti. Viviamo in un tempo in cui si è deciso di caratterizzarsi come quelli a cui il passato fa schifo, indicandolo come una sorta di mondo bucolico a cui guardare con sorrisini ironici per segnalarne il dilettantismo da cui era animato. Diventati ora estremamente furbi e professionali, e pur di andare a prendere i soldi promessi dall’Uefa, ci si va ad indebitare con un prestito “Senior” da quelli della potente banca d’affari “Goldman Sachs”.
C’è chi, poi, crede di essere più furbo di altri, e col cavolo pensa di andare ad indebitarsi o a mettere le mani sul patrimonio personale per cavalcare sogni di vittoria. Oggi, al contrario di ieri quando si era dilettanti, non solo non si mettono più soldi propri per provare a vincere, ma addirittura ci si rifiuta di metterli per farne altri. La visione dei furbi contemporanei è quella di prendere soldi altrove(leggi tifosi), per rendere ancora più corposo non il patrimonio del club, perennemente in stato di affanno, ma bensì quello personale. Aurelio De Laurentiis , autentico campione del mondo di questa visione “futurista”(spero i futuristi possano perdonare il mio audace accostamento), ha appena proposto un campionato europeo per club in grado di generare(bontà sua) introiti per dieci miliardi di euro e ha tenuto ad informarci come il “sistema calcio non funzioni più”. “Per essere competitivi si ha bisogno di giocatori di alto livello- ha sottolineato il nostro eroe -, e questo significa che devi spendere di più”. Era dai tempi di Copernico che non si assisteva ad una simile scoperta rivoluzionaria, e sono due giorni che in tutta Europa ci si chiede come mai non si sia arrivati prima alla conclusione del presidente del Napoli.
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Si è detto come il passato faccia schifo, e quindi a colui che nacque produttore cinematografico per poi essere folgorato sulla via di Damasco da un pallone di cuoio, è venuta un’idea dal profumo di Nobel per l’economia: “i club hanno bisogno di parlare tra loro per creare un torneo più moderno e che sia redditizio per tutti i partecipanti”. Si è alle dotte e innovative conversazioni da “Grande fratello 10”(o 11?) , vere suggestioni da futuro radioso, roba da mandare il forum di Davos a quel paese. Ma non c’è teoria rivoluzionaria seria che non tragga forza da valide citazioni scientifiche, di genialità propostesi nel lungo cammin di nostra vita. Come Andrea Agnelli, l’Aurelio nazionale ha individuato il nemico pubblico numero uno del calcio: lo smartphone, con cui “le persone tra gli otto e i 25 anni preferiscono giocare, invece di andare allo stadio a godersi una partita”.E ora preparatevi alla gabola, spacciata come soluzione perfetta per vincere la guerra contro lo smartphone:” abbiamo lo stadio virtuale, che può attirare miliardi di persone a giocare gli uni contro gli altri. Chissà se riusciremo a riportarli sulla strada dello sport più grande e influente al mondo”? Non è possibile sapere se il presidente del Napoli si sia poi reso conto della piccola contraddizione presente nella parte finale della sua domanda accorata, completamente in controtendenza contro lo scenario catastrofico di tutto il suo ragionamento. Ma non ci si soffermi sugli aspetti comici e si vada alla sostanza del De Laurentiis pensiero, con i tifosi ridotti a spettatori davanti ad uno schermo tv.
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Quei dieci miliardi di introiti, par di capire, verrebbero proprio da lì, magari attraverso immaginabili diavolerie di pacchetti di abbonamenti ad hoc da far ingurgitare ad una platea di tifosi di calcio prima convinti come la soluzione di ogni problema fosse non fare debiti, e ora incitati ad andare in guerra contro lo smartphone. Siamo talmente anestetizzati dalla nostra ignoranza, che finiremo per credere anche a questo ennesimo delirio travestito da analisi. Ovviamente il patron del Napoli non spiega perché chi ha scelto lo smartphone come suo passatempo, dovrebbe improvvisamente abbandonarlo per abbracciare la sua mirabolante “idea degli uni contro gli altri”(qualcuno vorrebbe spiegargli come questa cosa vada avanti nel calcio dall’800?). Non avendo mai fatto un discorso serio su investimenti e ricavi, prima il calcio si è inventato la monetizzazione delle vittorie, ora cerca di ricorrere ai poteri taumaturgici della tv. I club sono in mano ad apprendisti stregoni, figli di un’epoca dalla cultura inesistente. A rimanere del glorioso passato è rimasto solo il ricordo del refrain di una canzone di Edoardo Bennato: “lui è il gatto ed io la volpe, siamo in società. Di noi ti puoi fidar”. Si sa poi come è andata a finire…
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Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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