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De Laurentiis vorrebbe vincere. E non solo lui

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Loquor / Torna l'appuntamento con la rubrica di Anthony Weatherill: "Uno scudetto bisognerebbe meritarlo per tutta una serie di ragioni concrete, e tra queste ragioni non dovrebbe mai esserci il fattore fortuna"
Anthony Weatherill

“Se non accetti di perdere,

non puoi vincere”.

Vince Lombardi

Aurelio De Laurentiis, nel disperato tentativo di crearsi dal nulla una possibilità di concorrere prima o poi allo scudetto, ha dichiarato di stare lavorando con la Federcalcio per “percorrere la strada dei playoff e dei playout per spezzare la continuità penalizzante egli ultimi anni”. Il riferimento allo strapotere della Juventus è chiaro, ma al solito nell’odierna Italia invece di affrontare il vero nodo del perché la società bianconera ha raggiunto una capacità finanziaria improponibile, al momento, per quasi tutti gli altri club, si cerca una scorciatoia improbabile illudendosi come la vita sia una finale di Coppa Italia vinta per pura casualità contro una squadra oggettivamente più forte. C’è qualcosa di vagamente comico e puerile dietro questo tipo di tentativi, perché si ritiene come rimescolare le carte sia la soluzione per ogni tipo di avversità, per ogni tipo di differenza, e fa perdere il senso della realtà. E soprattutto non sarà l’invenzione della gabola dei playoff a restituire dignità competitiva alla Serie A; non è appendersi alla fortuna che può arriderti in uno scontro unico (seppur con un’andata e un ritorno) la soluzione per tornare a ridare competitività al campionato.

Uno scudetto bisognerebbe meritarlo per tutta una serie di ragioni concrete, e tra queste ragioni non dovrebbe mai esserci il fattore fortuna, da subire solo come porzione di casualità inevitabile. Ma De Laurentiis ormai lo si conosce, è ovvio come dal calcio stia cercando di ottenere ciò che non ha ottenuto dal cinema. Detto ciò, le preoccupazioni del presidente del Napoli non sono però campate per aria, perché in effetti il dominio finanziario della Juventus rischia di condannare ancora per anni i restanti club della massima serie italiana a concorrere per il secondo posto. Una cosa simile sta accadendo anche in Francia, dove il Paris Saint Germain del fondo sovrano del Qatar è finanziariamente irraggiungibile, in Germania, dove il Bayern di Monaco ha cannibalizzato la “Bundes”, e anche in Spagna dove Barcellona e Real Madrid proseguono il loro alternarsi su tutti i trofei in palio nella nazione iberica. Fa eccezione la Premier League, dove addirittura si è assistito alla cavalcata verso il titolo Leicester, outsider per definizione. Il Leicester nel suo magico 2016 veniva da un campionato dove aveva raggiunto la posizione occupata quest’anno da Cagliari e Udinese in Serie A. C’è però da notare un piccolo fondamentale dettaglio: la proprietà del Leicester è della King Power Group,una multinazionale leader dei “duty-free” aeroportuali e con un fatturato di oltre due miliardi di dollari. Inoltre Vichai Srivaddhanaprabha, deceduto in un incidente di elicottero, presiedeva il club delle Midlands Orientali, forte di un patrimonio personale di 5 miliardi di dollari. Si aggiunga a tutto questo una quota di circa 120 milioni di sterline, come ripartizione diritti televisivi, solo per il raggiungimento del 14 posto in Premier nella stagione 2014/15. Questa era la potenza di fuoco economica del Leicester al nastro di partenza della stagione che lo avrebbe visto laurearsi campione d’Inghilterra. E i 120 milioni di sterline frutto di un 14esimo posto in campionato, stanno li a testimoniare la ripartizione equa fra i club dei ricavi della Premier.

Questi numeri un po’ sommari, mettono in evidenza come e perché ogni club inglese ha la possibilità di compiere qualche impresa sportiva nel corso della sua esistenza, e come non abbia bisogno di inventarsi scorciatoie per provare a vincere qualcosa. Il calcio d’oltre Manica è riuscito a fare “sistema”, indicando una via funzionale per cercare di mantenere una concorrenza competitiva accettabile. Fare sistema vuol dire non rendere accettabile la soverchia finanziaria di un club verso tutti gli altri e il creare le condizioni perché un fondo sovrano, ad esempio, non possa in nessun modo possedere la proprietà di un club. Non starò qui a rievocare ancora una volta il perché il Qatar ha rilevato a suo tempo la proprietà del Paris Saint Germain, e non ripeterò ancora una volta di non illudersi troppo di un eventuale impegno finanziario arabo nel calcio italiano. Si tratta di geopolitica, e in questo contesto il calcio italiano non fa parte dell’orizzonte dei veri interessi mediorientali. Il Qatar, con l’immenso forziere del suo fondo sovrano, ormai è diventato una sorta di prezzemolino in ogni minestra; e qualcuno, attraverso la complicità della stampa, ogni tanto prova a far uscire sue fantasiose offerte fantasmagoriche per l’acquisto di qualche club italiano, come i famosi quasi 600 milioni di euro virtualmente proposti a De Laurentiis per l’acquisto del Napoli. Era una bufala, anzi una fake news, ma tutta la stampa e tifoseria napoletana si perse in settimane di entusiasmi per questo sogno ai loro occhi possibile. Montagne di soldi messi a disposizione dell’emiro qatarino per colmare il gap economico con la Juventus e mettere su una squadra da far tremare il mondo.

I sogni sono desideri, si sa, e quindi nessuno a chiedersi, a Napoli e dintorni, perché mai uno dei fondi sovrani più rilevanti e ricchi nello scacchiere geopolitico del mondo avrebbe dovuto acquisire la proprietà della società partenopea. Sarebbe stato facile far funzionare la logica, ma questa è notorio come possa andare a ramengo quando si tratta di confrontarla con qualcosa amata troppo, e che fatalmente finiamo per sopravvalutare. Sognare il ricco “Zio d’America” improvvisamente appalesarsi nel nostro orizzonte per risolvere ogni tipo di problema, è uno dei vizi italiani più antichi, e più duri a morire. Ma uscendo fuori dal concetto dello “Zio d’America”, tocca rilevare come tre dei cinque club che hanno raso al suolo l’ambizione di 37 avversarie nelle loro rispettive leghe, siano in mano ad un azionariato tra i tifosi e siano delle polisportive. Il Bayern di Monaco ha quasi trecentomila soci, che portano nelle casse della società bavarese 100 milioni di euro all’anno solo di merchandising. Davvero difficile per gli altri club delle Bundesliga stargli dietro, e infatti il Bayern ormai vince campionati quasi con il pilota automatico inserito. Del Real Madrid e Barcellona è quasi inutile parlare del loro generare profitti, ma vale la pena soffermarsi sul fatto come gli oltre centomila soci della “Casa Blanca” versino ogni anno una quota associativa di 150 euro, e come il valore contabile netto dello stadio e dei palazzi dello sport di sua proprietà sia di quasi 230 milioni di euro.

Sono dati, ripeto, sciorinati un po’ a spanne, perché lo scopo di quest’articolo non è fare una ricostruzione precisa della situazione finanziaria dei cinque club sopracitati e “protagonisti” della sopraffazione prima economica e poi agonistica della concorrenza, ma piuttosto far riflettere sull’urgenza da parte delle federazioni e delle Leghe di Spagna, Italia, Germania e Francia di provare a mettere fine a quella che di fatto è diventata un’oligarchia calcistica continentale. C’è anche un problema evidente del disinteresse dei grandi capitalisti e imprenditori europei verso lo sport più seguito al mondo; si assiste così ad un Amancio Ortega, padrone del gruppo “Zara” e uno degli uomini più ricchi del mondo (patrimonio personale stimato intorno ai 67milioni di dollari), con nessuna intenzione di investire capitali nel pur suo amato Deportivo La Coruna, sprofondato in una crisi sportiva ed economica senza precedenti. In Italia e Francia basterebbero gli esempi di Leonardo del Vecchio e Bernard Arnault a rinforzare l’idea di un calcio capace di attirare più gente dalla modesta forza economica di un Lotito o di un De Laurentiis, che forze economiche dal valore di miliardi di euro.

Attualmente, a questa idiosincrasia dei magnati continentali verso il calcio, fa da eccezione la famiglia Agnelli, dominus di una Juventus usata anche come chiave di volta per la diversificazione di investimenti da molti decenni stella polare dei signori FCA, che ha iniziato con il club bianconero un percorso industriale di cui, a mio avviso, ancora si possono vedere solo i primi passi. Se si continua a lasciare alla Juventus completa libertà d’azione, presto il divario con gli altri club della Serie A diventerà utopistico anche il solo pensare di colmarlo, considerando come dietro la società presieduta da Andrea Agnelli ci sia la Exor, una holding finanziaria con una capitalizzazione di 24 miliardi di dollari. Di fronte a questi numeri, fa quasi tenerezza il tentativo maldestro di De Laurentiis di trovare con la scorciatoia dei playoff un sospirato posto al sole. L’Italia del calcio, e non solo, dovrebbe finalmente interrogarsi cosa voglia veramente per il suo futuro, e soprattutto con quale regole codificarlo per far ritrovare allo scorrere del tempo una sua armonia, un suo equilibrio. Milton Friedman rilevò come “il problema dell’organizzazione sociale è di stabilire un contratto sociale in base al quale l’avidità farà il minor danno”. La saggia osservazione di Friedman, dovrebbe far capire persino a De Laurentiis, come la risoluzione di un problema socio/economico non risieda mai nel trovare un scorciatoia vincente. Si riuscirà, prima o poi, a comprendere un concetto in fondo così semplice?

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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