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columnist
Dedicato a un tifoso del Toro
“Senza tristezza, non ci
può essere felicità”.
Harlan Elison
Mi trovo in un periodo della vita in cui, per varie vicende, mi trovo a riflettere sovente sul dolore, sulla prova fisica e morale a cui prima o poi tutti siamo chiamati. Il dolore, quando irrompe nelle nostre vite, viene ad interrompere l’affannoso viaggio alla ricerca della felicità, spesso risoluzione logica di un nulla di fatto. Si rivive l’esperienza del Giobbe biblico, che nella sfida lanciata dal diavolo a Dio si ritrova nella triste esperienza di scoprire quanto possa essere fragile una vita, abbandonata in una sola e straziante domanda rivolta al cielo: “chi sono io che soffro e che muoio”? Un tifoso del Toro, non di mia conoscenza ma di cui ho letto un toccante commento, trova ancora la forza e la gioia di tornare indietro con la memoria a ricordare la sua adolescenza accompagnata dallo storico scudetto conquistato dalla sua squadra nel campionato 1975/76.
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È un tifoso, da quel che si evince dal commento, attaccato ad una macchina che gli consente di vivere una vita con i suoi cari, con la sua squadra del cuore e con i fratelli in tifo. Questa storia per me è una sorta di testimonianza tangibile, come forse il dolore non sia poi sempre un’interruzione di un percorso di felicità. “Mi vengono ancora i brividi quando sento parlare del mio Toro”, dice nel suo post questa persona, la cui continuazione di un’esperienza è affidata ad una macchina, tesa a ricordargli ogni giorno una felicità ed un’emozione ancora possibili. La cosa ricorda una riflessione di Aristotele, ipotesi del dolore come “un’emozione che irrompe nella coscienza”. Quando l’emozione irrompe nella coscienza, avviene un processo che consente alla nostra sensorialità di acchiappare l’intangibile per tramutarlo in tangibile. In qualcosa per il quale vale la pena vivere, lottare e persino ricordare senza rimpianti o rimorsi. Per molte persone il calcio è davvero poca cosa, qualcosa di più di un intrattenimento, ma nulla di più. Il pallone viene piazzato al centro del campo, i giocatori fanno gli ultimi esercizi di stretching, a casa si stappa una bottiglia di birra e si fa un’ultima telefonata ad un amico/a prima del fischio dell’arbitro: il fischio fatale dell’inizio di una partita.
Raramente l’uomo contemporaneo si ferma a riflettere come quel fischio sia l’inizio di una storia, incasellata in altre interminabili storie. Per i più è solo l’inizio di un momento sospeso tra un’occupazione e un’altra. Per costoro non c’è attesa del dolore o della gioia, ma consumazione di un rito, che più passa il tempo e più diventa distante”. La felicità nasce dal dolore, altrimenti è soltanto noia”, ricorda Zygmunt Bauman, come se conoscesse e fosse un vecchio amico del tifoso del Toro collegato alla macchina salva vita, fiero nel ricordare, nel suo post, come la sua voglia di combattere esista dentro di lui anche perché è la storia della sua squadra ad avergliela insegnata. E ciò mi fa riflettere, ancora una volta, che se c’è un luogo del mondo dove certamente emozione e coscienza si incontrano e si sintetizzano, questo è il Toro. La perdita improvvisa di gente come Valentino Mazzola o Gigi Meroni, la puoi sopportare e dargli una spiegazione solo se la tua squadra è diventata “quel ramo del lago di Como” di manzoniana memoria, prosa naturalistica non di un rimpianto di un abbandono forzato improvviso, ma di una vera visione del mondo al quale aggrapparsi per non smarrirsi tra le strade del mondo. Nemmeno in quella impervia di una macchina salva vita. Se non si è tifosi granata, e quindi per forza di cosa osservando da lontano le vicende di casa Toro, sembrerebbe, tra gli attuali componenti del “roster” granata, il solo Andrea Belotti aver ben compreso l’urlo di speranza del tifoso che si rivede “ragazzino di 12 anni in Curva Maratona a tifare e gridare il nome del mio idolo Pupigol”.
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Già, è Paolo Pulici, ancora, a distanza di anni, in grado di far nascere felicità dal dolore, ed è davvero faticoso capire come ad una persona del genere non sia consentito il ritorno a casa sua. Lo vogliono i tifosi, lo vuole la storia del Toro, lo vogliono le sue 335 presenze in maglia granata, lo vuole una persona combattente per la vita attaccato ad una macchina. E allora, perché no? Misteri di un mondo dove anche il Napoli, ora mesto per la sua morte, non è stato capace di riportare Maradona sotto il Vesuvio per proseguire come dirigente una immensa storia azzurra vissuta come calciatore. Fossi al posto di un giocatore del Torino, troverei un momento di tempo per andarmi a sedere davanti al tifoso attaccato alla macchina salva vita, a farmi raccontare lo scorrere dei suoi giorni e i suoi perché. Dove trova la forza per pensare ancora ai calci ad un pallone suoi e dei suoi compagni, dove trova l’entusiasmo di digitare sopra una tastiera per scrivere in un forum e parlare dei suoi ricordi adolescenziali in Curva Maratona. Il giocatore, sentendolo parlare, probabilmente troverebbe quel grammo in più di forza e convinzione da buttare in campo nella prossima partita, perché avrebbe preso atto come il “peso” di una maglia non dipende solo dalla sua storia, ma anche dall’amore dei suoi tifosi. Perché in quell’amore c’è un nugolo di storie parallele apparentemente obbligate a non incontrarsi mai, perché Euclide, nella sua “Geometria Assoluta”, così ha stabilito, non volendo considerare come la Terra sia rotonda. E in questa rotondità le storie di calcio riescono a sconfiggere l’assolutismo euclideo, facendo incontrare queste vite parallele nell’infinito di una partita e di un suo attimo irripetibile.
Nell’anticipazione del libro “Ritorniamo a Sognare”, in uscita il prossimo 1 dicembre, Papa Francesco ha parlato delle tre situazioni “Covid” da lui vissute. Nel “Covid dell’Esilio”, l’attuale Pontefice ricorda la finale mondiale del 1986, vissuta nell’esilio volontario in Germania, dove si era recato per ragioni di studio e di apprendimento della lingua. “Il giorno in cui l’Argentina vinse i mondiali, non avevo voluto vedere la partita e seppi della nostra vittoria solo l’indomani. Nella mia classe di tedesco nessuno ne fece parola, ma quando una ragazza giapponese scrisse “Viva l’Argentina” sulla lavagna, gli altri si misero a ridere. Entrò la professoressa, disse di cancellarla e chiuse l’argomento. Era la solitudine di una vittoria da solo, perché non c’era nessuno a condividerla; la solitudine di non appartenere, che ti fa estraneo”. Il rammentare di Papa Francesco, sottolinea la necessità che le vite parallele si incontrino in quell’infinito oltre l’infinito, dove il parallelismo cessa per un attimo di essere solo un teorema di entità intraviste per diventare incontro di condivisione, dove anche un silenzio diventa un affresco di contenuti. Perché, poi, nelle vicende della vita, anche davanti alle malattie, a volte non servono tante parole ma solo condivisione perlopiù silenziosa e parca di parole. Basta il “Luogo” avvertito come culla primordiale a riempire gli spazi aperti nel silenzio. La sofferenza divenuta coscienza, è il mondo del Toro che si fa tondo e lo caratterizza.
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Ultimamente si sentono tante voci di nuovi possibili acquirenti della società granata, probabilmente perché avvertono come Urbano Cairo non abbia mai percepito come sua la sfericità a tinte granata, e vogliono afferrare il momento buono in cui i tifosi vogliono un presidente con il senso della sofferenza non agitato come segno di resa, ma come nuova occasione di lotta. “Dai miei principali Covid personali – chiosa Papa Francesco nel suo libro in uscita – ho imparato che soffri molto, ma se lasci che ti cambi ne esci migliore. Se invece alzi le barricate, ne esci peggiore”. La sofferenza è la coscienza della storia del Toro, è il suo modo di parlare al mondo. Chiunque ne prenda in mano le sorti deve davvero accettare questo orizzonte come unica moneta di scambio con il calcio. Quando il dolore diventa emozione stanziale nella coscienza, esso diventa il percorso razionale con cui si cerca la felicità. In ciò risiede l’impossibilità per gli argentini, in queste ore, di non piangere per Diego Armando Maradona. E non c’è nota canzone a poterli convincere a non farlo. Eugenio Montale, in una sua nota poesia, rimane colpito dalla visione di un cavallo stramazzato. Il grande poeta italiano in quel momento proprio non riesce a vedere altro se non il cavallo vinto dalla fatica. Ma nel mondo tondo del Toro quel cavallo presto tornerà a rimettersi in piedi, magari per correre in piedi diversamente. Magari con più fatica. Ma tornerà a correre. Basterà questo per far tornare il tifoso attaccato alla macchina salva vita sulle gradinate della Maratona. Fosse anche solo con l’immaginazione e il ricordo. Dite come questo non sia poi molto? Non so, provate a chiederglielo. Magari dopo una splendida mezza rovesciata di Andrea Belotti, a sancire il gol della vittoria all’ultimo minuto di un derby. Ah, quanto amo il calcio e le sue storie.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.
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