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ZAGREB, CROATIA - OCTOBER 21: Retired jerseys are displayed during a short ceremony before Euroleague Basketball Regular Season Game Day 1 match between Cibona Zagreb vs Montepaschi Siena at Basketball Center Drazen Petrovic on October 21, 2009 in Zagreb, Croatia, two jerseys, no.4 MIHOVIL NAKIC(C) and no 11 ANDRO KNEGO(L), were retired and lifted in the Arena.The first retired jersey was of Drazen Petrovic(10) (Photo by Robert Valai/Euroleague Basketball via Getty Images)
“Non c’è mai stato più inizio
di quanto ce ne sia ora”.
Walt Whitman
C’è stato un momento, nella prima metà degli anni 90, in cui nella Ex Jugoslavia per un cecchino sparare su un civile o un militare non faceva assolutamente differenza. Il mirino pone distanza tra te e il reale, e poi al futuro non ci pensi o proprio non lo vedi. Il ricordo, in seguito, viene affidato a piccole steli con inciso il nome delle vittime; lodevole iniziativa, ma assolutamente incapace di raccontare l’orrore di una nazione che un bel giorno ha deciso di non esserci più, dissolvendosi in tanti microcosmi di danni esistenziali, come la fine della squadra europea di basket più forte di sempre, quella costruita e destinata, nei sogni di chiunque abbia amato o ami il gioco del basket, a sfidare il “Dream Team” americano alle Olimpiadi di Barcellona del 1992. Una guerra è capace di sintetizzare il dolore come poche altre cose al mondo, in essa assisti a qualcosa che supera perfino i lutti consegnando all’oblio un quotidiano dato per scontato come accendere l’interruttore della luce di una abitazione. E’ una calda mattina milanese di qualche anno fa e nella sala bar del raffinatissimo e lussuosissimo Hotel Melia tutto è ovattato e frenetico nello stesso tempo. Molto del bel mondo vip del capoluogo lombardo si sta intrattenendo tra un caffè e altre prelibatezze della pasticceria meneghina, seduto poco dietro di me c’è Luis Figo con l’eterna aria seriosa dei lusitani stampata in viso.
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“Tutto per loro é Fado ed Amalia Rodriguez”, penso soffermandomi con lo sguardo sull’abito di ottima fattura indossato dal campione portoghese proprio mentre il brusio ovattato di ferma per un istante per l’ingresso nella sala di un omone in “bermuda”, maglietta quasi da rigattiere, pantofole da spiaggia o da piscina. Aleksandar “Sasha” Djordjevic mi riconosce subito pur non avendomi mai visto e si viene a sedere davanti a me. Ha un sorriso accogliente, di quelli adottati con la volontà di metterti a tuo agio; intorno percepisco l’invidia di chi mi sta vedendo conversare con una delle leggende del basket europeo e mondiale. Sasha è amato dai milanesi, ha giocato e poi allenato l’Olimpia Milano, e fa parte di quella generazione d’oro che ha reso grande lo sport più amato nei Balcani. All’inizio fatico a trovare una connessione, balbetto e farfuglio cose senza senso, stento a credere di trovarmi davanti a lui e di avere la sua confidenza. Vorrei toccarlo per accertarmi se davvero sto davanti ad una persona in carne ed ossa o semplicemente davanti al suo ologramma. Afferro l’urgenza di trovare una via d’uscita, altrimenti rischio di naufragare pericolosamente nel mio imbarazzo mandando a ramengo la pregevole referenza procuratemi dal mitico Cino Marchese(quanto mi manchi, Cino) senza la quale Djordjevic non mi avrebbe nemmeno risposto al telefono.
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“Allora, cosa vuoi da me?”, fu la domanda diretta e senza orpelli verbali o aggettivali come solo gli slavi sanno fare, ed in quel momento decido di giocarmi una carta ardita, quasi da kamikaze. Non solo non rispondo in modo diretto alla domanda, cosa che manderebbe tutti in manicomio dalla Slovenia alla Croazia, ma decido di parlargli di Drazen Petrovic: “sono stato a Zagabria a parlare con Asa Petrovic. Mi ha detto che dopo la finale persa con gli americani a Barcellona, Drazen gli aveva confidato che con te in cabina di regia e Vlade Divac sotto canestro forse con il “Dream Team” si sarebbe potuta giocare meglio la finale”. Il sorriso scomparve improvvisamente dal volto di Djordevjc e lo sguardo si fece estremamente serio: “davvero ha detto così”? Gli dissi che avevo la registrazione dell’intervista a Roma e che, se voleva, avrei potuto fargliene una copia. Quasi si piegò in due per la commozione e faticò non poco per non scoppiare a piangere, gli avevo riferito il complimento postumo dello sportivo più famoso e amato dei Balcani, la stima conclamata di uno dei più fulgidi fuoriclasse che mai abbiano calcato un parquet di basket. L’11 giugno del 1993, il giorno dei suoi funerali, la guerra si ferma: dalla Serbia alla Croazia, passando per la Bosnia Erzegovina, nessuno ha voglia di sparare un colpo. Tutti decidono di fermarsi per onorare e ricordare l’orgoglio dell’intera nazione slava, e tutti forse percepiscono in modo nitido l’assurdità della guerra in corso.
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Accorrono in 100.000 alla cappella del cimitero di Mirogoj e Chris Dudley del “New York Times” scrive: “immaginavo quanto fosse conosciuto e rispettato anche in Europa, ma quello che ho visto oggi è difficile da credere. Qui Drazen è Dio”. Mentre la madre, distrutta da dolore, si sorreggeva appoggiandosi ad Aza, si sentì una voce forte dalla folla: “non essere triste. Tu gli hai dato la vita, ma lui non appartiene solo a te, appartiene a tutti”. Ho visto e conosciuto tante storie di sport nella mia vita, alcune le ho narrate e altre mi hanno reso una persona migliore e felice, ma niente mi ha mai toccato dentro, fino al profondo del cuore e dell’anima, come la vicenda umana e sportiva di Drazen Petrovic. Vederlo in azione è stato come un atto di grazia di Dio nei miei confronti, una cosa che mi annichilisce di bellezza ancora oggi se solo ci penso. Chi non lo ha mai visto giocare non può davvero capire. Dino Radja, in un bar di fronte all’incantevole lungomare di Spalato, mi raccontò che nell’intervallo della finale olimpica di Barcellona 92, con gli americani fortemente in vantaggio, Drazen era l’unico convinto che si potesse ancora vincere e cercò di caricare come una furia i suoi compagni: “non dimenticate che in patria ci stanno guardando e sperano in noi.
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Dobbiamo provarci, fino all’ultimo”. Sei in guerra, molti tuoi amici e parenti sono morti o rischiano di morire, e in quei frangenti tu sai quanto può valere farsi onore in una finale olimpica. Non importa se davanti hai Larry Bird, Magic Johnson, Michael Jordan o Charles Barkley, tu hai il dovere di provarci. “Ci mancavano gli sloveni, ci mancavano i serbi… con quei ragazzi eravamo cresciuti in tutte le rappresentative nazionali giovanili… avevamo coltivato desideri e obiettivi in comune, ma con lo scoppio della guerra tutto è finito in un attimo. Se incontravo Vlade Divac non potevo nemmeno salutarlo, si era in guerra e noi eravamo dei simboli. Vlade e Drazen erano compagni di stanza in nazionale, erano amici e si volevano bene. Dopo la scoppio della guerra non si sono più parlati per tutta la vita. Dovevamo prendere posizione, capisci? Eravamo dei simboli”. C’erano dolore, tristezza e incredulità nelle parole di Radja, e in quell’istante capii cosa veramente fa la guerra: sotterra ogni sentimento, ogni rapporto, ogni consuetudine quotidiana, lasciandoti solo al mondo nel bel mezzo di un orrore. Ricordo ancora gli sguardi di ammirazione verso Radja da parte dei passanti, no, quei giocatori non potevano veramente avere più rapporti amichevoli e di fratellanza tra loro: troppi massacri, troppa gratuita violenza, troppe distruzioni ormai avevano scavato fossati profondi tra loro. “Li avevamo scelti uno ad uno, sin da ragazzi, per portare avanti un progetto di sfida agli americani.
Volevamo dimostrare come il basket europeo fosse all’altezza di ogni sfida…- mi raccontò con grande rammarico Mirko Novosel, tecnico croato passato anche per l’Italia –prima o poi, ne sono convinto, saremmo riusciti a batterli”. L’audacia e il valore di sostenerla fanno parte della storia degli uomini, sono parte di un infinito che non ha sipario. “L’eternità è innamorata delle opere del tempo”, scrive William Blake, e mentre rileggo alla rinfusa gli appunti delle interviste fatte a suo tempo ai giocatori di quell’ultima nazionale jugoslava, mi riviene in mente la domanda di Sasha Djordevjc: “cosa vuoi da me”? Avrei voluto dirgli che mi sarebbe piaciuto vedere se quella squadra alla fine avrebbe battuto gli americani, che mi dispiaceva per tutto quel dolore insensato, che avrei dato non so cosa per rivedere ancora una volta un tiro da tre punti di Drazen Petrovic o un suo “uno contro ad uno”, che morire in un incidente stradale è figlio di un fato davvero stupido, che il rammarico è un peso assai più difficile da sopportare del dolore.
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E poi lo avrei messo al corrente di una considerazione fattemi un giorno da una importante ufficio stampa di origini croate: “semmai ce la farai a fare un film su di loro non solo renderai felice una nazione intera, ma da noi avrai eterna gratitudine. Non riuscirò mai a raccontarti cosa quella squadra ha realmente rappresentato per noi. La guerra ha distrutto tutto, però non è riuscita a farlo con i nostri ricordi. Quelli saranno per sempre con noi”. Pensiamoci bene prima di sparare un colpo di arma da fuoco o di augurarci che qualcuno lo faccia, pensiamoci veramente. Un giorno verrò a trovarti a Mirogoj, Drazen. Aspettami, perché ho tante cose da raccontarti.
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