“Non esiste più il mandato sociale”.
Loquor
Egemonia e futuro
Torna un nuovo appuntamento con la rubrica "Loquor", a cura di Carmelo Pennisi
Franco Fortini
Ci sono svariati modi per rilevare se una Nazione, con tutto il suo bagaglio di storia e di responsabilità culturale, sia in declino o in ascesa; questo semmai si avesse ancora un motivo o la voglia di interrogarsi, di scendere a fondo alle cose in nome e per conto delle generazioni che verranno. Più volte questa rubrica (sin dai tempi di Anthony Weatherill) ha posto l’attenzione sul calcio (e lo sport in generale) come uno specchio su cui si riflette il reale stato e la reale essenza di tutti i valori comunitari e della visione prospettica di un popolo. Usando questo specchio sull’Italia, con rammarico si deve constatare come l’immagine riflessa sia quello di uno smarrimento totale del concetto di “missione sociale” da parte della sua elite.
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“Gli spartani capeggiavano i loro alleati senza sottoporli a tributo. Loro unica preoccupazione era che, retti da governi oligarchici, serbassero un regime politico conveniente agli interessi di Sparta”, scrive Tucidide nel tentativo, attraverso la visione storica e militare che gli apparteneva, di invitare non solo i suoi contemporanei, ma anche i posteri, a considerare quanto fossero importanti gli interessi generali (nel caso di specie quelli di una Città Stato come Sparta) rispetto alle esigenze molteplici dei singoli. Tucidide, inoltre, ha il merito di porre la valutazione storica completamente scevra da ogni riferimento al “divino” (è quasi una svolta copernicana, se solo si pensi allo schema drammaturgico di un componimento come l’Iliade), richiamando le responsabilità davanti alla Storia all’azione degli uomini, e degli uomini soltanto.
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Lo storico ateniese mette poi l’accento sull’atavica tendenza della natura umana a esporsi con azioni determinate per accrescere il proprio potere, e nel sottomettere in primo luogo le realtà più deboli. Provare ad essere egemoni è una questione irrinunciabile dell’umano agire, e porta ad essere disposti persino ad intraprendere veri e propri conflitti, a volte persino esagerati e fin troppo brutali. Nell’esercitare tale volontà di dominio non ci si preoccupa più di tanto di eventuali asimmetrie che si vengono a creare e nemmeno un probabile disdoro alle convenzioni spinge l’arretramento delle ambizioni. Il libero mercato, la guerra, l’apertura di un testamento davanti ad un notaio e persino la riunione di un condominio assurgono a fenomeni surrettizi di ricerca di aumento di una propria potenza. Se tutto questo è vero (e a mio parere lo è), allora diventa inspiegabile il totale disinteresse, mostrato da una ventina d’anni a questa parte, della nostra elite verso il mondo dello sport. Il tentativo, ad esempio, di porre la candidatura di una città (e quindi di tutto il Paese) ad una organizzazione di una Olimpiade è una questione demandata esclusivamente alle istituzioni politiche (di cui di diritto fa parte anche il CONI), come se il mondo produttivo e della finanza fossero completamente disarticolate o disancorate da un avvenimento così importante.
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Questi mondi non vanno a dare una mano ad una composizione della cosiddetta “torta” al fine di convincere il CIO a dare una chance al Paese, ma al massimo si mostrano disposti solo a prendersi una fetta della “torta” in lucrosi appalti. Nella elite italica non c’è quell’ansia, di cui parla Tucidide, di rendere potente e prestigiosa la “Città” e di sacrificarci in questa visione anche un po’ di fortuna e di denari. C’è lo stare affacciati alla finestra per vedere come le faccende si mettono per poi semmai lucrare qualcosa da l’eterno profluvio di soldi pubblici. “Per avere fondamenti etici il profitto individuale deve radicarsi e cedere a un ordine superiore, che è la sua utilità sociale” si legge in un passaggio della Lettera Apostolica “Octogesima Adveniens” di Paolo VI, redatta per commemorare l’80° anniversario della “Rerum Novarum” di Leone XIII, a riaffermare come il capitalista (o il padrone, fate voi) non viva su un’isola deserta ma in un contesto sociale al quale deve tutte le sue fortune, che lo rendono responsabile di una qualche sua azione di “ritorno” (leggasi anche “gratitudine”) verso la comunità con cui commercia e lavora.
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Ma il capitalista del Bel Paese attualmente appare smemorato, poco incline a prendersi sulle sue spalle anche un ruolo sociale, e non gli importa più nemmeno di essere un quadro intermedio tra i salariati e il potere politico. Si assiste, quindi, ad un campionato di Serie A sempre più monopolizzato da proprietà straniere spesso presenti sotto forma di fondi di investimento, ovvero il peggio che possa mai capitare ad una squadra di calcio. Campioni nel trasferire linee produttive e sedi fiscali all’estero, la nostra “razza padrona” non riesce più a guardare al giardino di casa e continua ad ignorare i suoi doveri sociali, tra cui anche il calcio. E’ venuto a mancare quello che nel giudaismo(e poi nel cristianesimo) si assolve nell’osservare il concetto di “Berit”, ovvero di ricerca di un’alleanza(a partire da quella con Dio), che coniuga da sempre grazia divina e impegno umano, qualcosa posta quasi dall’inizio dei tempi della cultura occidentale a ricordare come esista anche una parte intangibile da osservare e ottemperare. Il patto stretto con Dio nell’Antico Testamento da il via in Occidente a tutta una visione “contrattualistica” dell’esistenza, che dovrebbe imporre nelle coscienze anche il “dover fare qualcosa” non tanto perché conviene, ma perché apparteniamo ad un corpo sociale ben definito.
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Con questo non voglio affermare l’obbligo, per uno come Leonardo Del Vecchio, di comprare una squadra di calcio, ma piuttosto sottolineare un dovere etico a cui lui, e quelli come lui, forse dovrebbero pensare. Lasciare il calcio italiano nelle mani di avventurieri di piccolo cabotaggio(inutile farne i nomi) o a fondi di investimenti e uomini d’affari stranieri, è voltarsi dall’altra parte mentre un infausto destino sta derubando la tua Nazione una delle perle più importanti della sua storia culturale. E’ un fenomeno difficilmente riscontrabile in altre parti del mondo, dove le persone baciate dalla sorte e dalla ricchezza si battono e mettono fondi per lo sviluppo e per la difesa dei valori culturali nazionali. Graeme Hart, la persona più ricca della Nuova Zelanda(patrimonio personale stimato intorno ai 13 miliardi di dollari), è il più generoso finanziatore del Consorzio Neozelandese dell’Americas Cup e del movimento rugbistico “Kiwi”, probabilmente perché, come ebbe a dire in una delle sue rare interviste, considera i “soldi solo un sottoprodotto di ciò che faccio”. Hart è solo uno dei tanti esempi da potersi fare di miliardari pronti a spendersi per le “cartoline” principali dei loro Paesi, rendendosi conto come “gli interessi di Sparta” debbano essere da loro necessariamente messi al primo posto. Il capitalista nostrano indifferente all’occasione di potersi comprare il Milan (finirà al Bahrein? Vedremo) è uno dei segni tangibili della resa italiana agli eventi complicati di questo inizio secolo, dove la nostra elite, in attesa di ordini dagli Stati Uniti, manda avanti la sua grancassa mediatica a discutere all’infinito se gli ucraini debbano combattere o meno (certi passaggi tv saranno l’oro dei “Blob” del 2030), invece di gettare un occhio responsabile su una crisi economica ed energetica devastante incombente minacciosa sul destino del nostro Paese. Ma sì, meglio occuparsi di cose dove le parole contano così un nulla da far sembrare avanspettacolo un simposio di premi Nobel e affidarsi come prospettiva politica allo spegnimento dei condizionatori: lavorare per una egemonia è roba troppo faticosa.
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Nella parabola di un Italia ormai ridotta a pensarsi al massimo come un “villaggio vacanze”, eccelle il lavoro silenzioso e certosino di Paolo Maldini, una vita impiegata per il calcio e per il Milan, quest’ultimo ricostruito da una paurosa voragine di debiti e di credibilità anche e soprattutto grazie alla sua abilità di uomo di sport e di vedere i colori rossoneri tornare egemonici. Dall’inizio dei tempi l’esistenza è un conflitto dove ad un certo punto bisogna uscire dal fraintendimento della parola “pace”, perché fare la triste fine del biblico Abele va bene solo se si ha perfettamente chiaro quale offerta si stia facendo all’Eterno o alla Natura delle cose, altrimenti si diventa semplicemente dei sopravvissuti anche se provvisti di ricchi conti bancari. Mentre il calcio italiano sta morendo (e non solo il calcio) i ricchi del “Bel Paese” continuano a “fottere” il futuro, tornando all’infausta tradizione dalle nostre parti perdurata per secoli fino al Risorgimento. A tutti noi non rimane che il gioco di post pubblicati su ogni tipo di social, sovente specchio di ego mal riusciti o fin troppo spropositati. Da noi il povero Tucidide sarebbe stato definito un complottista, uno spregevole sovranista da annichilire in ogni tipo di salotto possibile. Meglio aver chiuso le porte del Paese e aver messo in bella evidenza il cartello “In Vendita”. Speriamo almeno non sia una vendita “in saldo”.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.
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