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“Saper pensare con i piedi”
Osvaldo Soriano
“Beh, loro (gli inglesi) hanno inventato il gioco, ma noi faremo qualcosa di molto più importante, inventeremo l’amore per il gioco”, è uno dei passaggi più emozionanti dello spettacolo “La Milonga del Futbol”, questo di Federico di Buffa, che dal palcoscenico del teatro prova a farti venire nostalgia del calcio e della storia degli uomini. Buffa è una di quelle rare persone che riescono a farti percepire quanto sia grande l’occasione dell’esistenza, del vivere ogni minuto di una giornata e di metterlo insieme ad altri minuti, andando così a completare il puzzle della meraviglia. Ha genio ma non ha spocchia l’Avvocato(straordinario soprannome che richiama quello più famoso del vero ultimo Re d’Italia, il più cinico Gianni), racconta sport come solo Osvaldo Soriano ha saputo fare, infiltrando di senso quelle che per noi comuni mortali sono solo suggestioni, lacrime e sorrisi. Giovane apprendista redattore di una agenzia stampa, e confinato a leggere i giornali dell’America Latina per vedere di trovare qualcosa di interessante e giustificare così la mia presenza in redazione, ne approfittavo per andare a cercare qualche articolo di “El Gordo”, attento a non farmi beccare di stare a perdere tempo con lo sport. Soriano precede cronologicamente nei miei sentimenti Federico Buffa, sono tutti e due misteriosamente innamorati del gioco, ma uno, Soriano, è una perenne giornata dal cielo coperto da dove spera di trarre prima o poi qualche raggio di sole, l’altro è il sole destinato a non spegnersi mai. “Ho avuto un gran culo”, dice sempre riferendosi al suo successo professionale, e a te verrebbe subito da rispondere:”noi abbiamo avuto culo, che tu hai avuto un gran culo”. Buffa è così, positivo e incapace di lasciarsi soggiogare dal negativo, credo di non averlo mai visto arrabbiato o perso in una polemica stucchevole, l’amore per il gioco prevale sempre.
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Parimenti all’amore per il SudAmerica, per lui un mondo incantato e folle, un luogo intrinsecamente italiano, e al nostro Paese in qualche modo devoto. In un mio spettacolo teatrale(spero perdoniate l’autocitazione) l’ho chiamata l’America sbagliata, l’apparente scommessa persa di molti nostri emigranti con la prua della nave indirizzata verso “Mar del Plata” invece che ricercare il promontorio di “Ellis Island”, inizio di ogni avventura nell’America giusta. Ma la vita a volte è un semplice tirare in aria una moneta e aspettare il responso del “testa o croce”, e se la croce indirizzava il tuo destino verso la “Città della Madonna della Buona Aria”, meglio conosciuta come Buenos Aires, allora sì che qualcosa di interessante e degno di essere vissuto era alle porte per te e tutti i tuoi discendenti. “Diego Armando Maradona, Astor Piazzolla e Carlos Gardel rappresentano per gli argentini la loro trimurti”, e mentre il giornalista lombardo te lo racconta i suoi occhi si infiammano e il pensiero gli va ad Edward Hopper, uno dei maggiori pittori statunitensi del ventesimo secolo, e lo cita per ribellarsi a chi si ostina a non considerare il calcio un arte: “se avessi avuto le parole non avrei dipinto”. “Lo sport e la musica non hanno bisogno di parole, arrivano al cuore senza bisogno di apprenderne nessun idioma particolare”, ha detto di recente presentando il suo nuovo spettacolo, come sempre tenacemente teso a provare a farti innamorare del mondo, perché semmai esiste un altrove per adesso siamo aldiquà di esso e dobbiamo cercare di accendere luci piuttosto che spegnerle. L’Argentina con i suoi sei colpi di Stato in un solo secolo, con la crisi economica come stato d’animo perenne, con il “Peronismo” incapace di guarirla ma onnipresente nei desideri, con il tango a farti credere come sia la “Milonga” a rendere “spazioso” il quotidiano e a far relegare l’incubo ad elenco di occasioni mancate, e niente di più. Si può superare in follia tutto ciò? Per Buffa, credo, nemmeno una schiacciata a canestro del suo adorato Kobe Bryant può farlo. E’ vita persa senza essere perduta, é la vertigine e il cigolio dell’anima colpita da un sussulto poco dopo aver pensato di arrendersi. Se Roger Federer ha l’estetica, il calcio da strada “gaucho” ha “l’alma”, una sorta di blues da poter rintracciare nella storia solo nelle piantagioni irrorate da sudore africano negli Stati Uniti Confederati ante Guerra Civile.
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Ma l’Avvocato non dimentica il resto della trimurti del calcio latinoamericano, ovvero Brasile e Uruguay, dove quest’ultimo è condannato ad essere dirimpettaio dell’Argentina senza poter eguagliarlo in follia e nel buttarsi costantemente nel turbinio della vita senza paracadute. L’affabulazione allora, come una prodigiosa macchina del tempo fatta di parole, torna indietro alle Olimpiadi di Parigi del 2024 e il lirismo esalta certo le prodezze sportive di Josè Leandro Andrade, la “Maravilla Negra” mito del calcio uruguagio di ogni tempo, ma soprattutto la travolgente storia d’amore nata tra i tavoli di un locale notturno con Josephine Baker, iconica figura dell’arte dell’intrattenimento francese ed eroe della resistenza al nazismo. La “Venere Nera” e la “Maravilla Nera”, pare un destino ineludibile nell’incrociarsi e Buffa non riesce a trattenere l’ammirazione mentre lo racconta; la schiavitù nera innervata nella storia di tutto il continente americano riscattata per un attimo grazie al pallone e alla musica, le due tra le tre grandi passioni dell’avvocato prestato al giornalismo, la terza è il basket americano, lo sport che lo ha redento dalle aule di tribunale e per nostra fortuna ce lo ha consegnato al racconto. “Mi innamorai del basket quando vidi giocare a Milano Charles Lee Jura, Aveva i capelli così lunghi che sembrava un Nazareno”, e mentre lo racconta colpisce il riferimento all’iconografia dell’Uomo di Nazareth, istintivamente non portato a caso in analogia considerato come quel giorno probabilmente era avvenuto il miracolo: stava nascendo il Federico Buffa “storyteller” dello sport. L’America giusta gli regala il vero amore, ovvero quello sport frenetico ma in eterno surplace che è il basket. La mano che si piega mentre il pallone parte verso il canestro è la sospensione di un momento irripetibile, l’attendere qualcosa impossibile per la fisica ma assolutamente naturale per la fede. Il basket interrompe il predominio britannico sullo sport moderno, perché finalmente gli Usa riescono ad esportare nel globo uno sport inventato da loro. “Lascia che la partita arrivi a te”, è la frase di Phil Jackson, guru della palla a spicchi a Stelle e Strisce, ripetuta come un mantra buddista da Buffa ogni volta che si accosta a narrare di sport. Non bisogna mai dimenticarlo come gioco, è il gioco a creare l’epica e ad entrare nell’epopea: tutto si sviluppa nel gioco. Il basket è il cuore, ma l’anima di Buffa sta in Argentina, omaggiata dal suo aver imparato la lingua spagnola persino con l’accento perfetto da nativo “Castigliano”(ne rimase colpito Luis Enrique nel corso di una intervista con lui), e lo diverte immaginare Papa Francesco, grande tifoso del San Lorenzo De Almagro, muoversi tra gli scaffali del “Carrefour” adiacente lo stadio a simulare i gol storici della sua squadra del cuore. “Lì, vicino ai pacchi di pasta e alle bottiglie di acqua minerale, un tempo c’erano le porte del “Vejo Gasometro, te lo juro!”, che spettacolo immaginare l’attuale Pontefice dire queste parole. Le necessità della spesa sarebbero venute abbondantemente dopo.
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L’Argentina, nella visione dell’Avvocato, è quel luogo del mondo dove il football prova a resistere ai cambiamenti voluti dal business dei potentati finanziari e dalla Fifa. L’amore per il gioco, profondo e misterioso, riesce ancora a garantire rispetto e dignità alla memoria, e da noi riporta la mente agli scriba di lusso prestati allo sport: Gianni Brera, Giovanni Arpino, Gianni Clerici. Il futuro letterario dello sport lo stanno facendo letteralmente a pezzi i social, dove ognuno è giunto al pensiero assai debole di potersi ricostruire da solo le storie attraverso innumerevoli spezzoni video e fotografici. Niente Arpino, niente Brera, niente Clerici, niente Buffa. Siamo al fai da te esistenziale, e sul serio siamo giunti a ritenere di poter far a meno di un Ernest Hemingway che in un pomeriggio in una “Plaza De Toros” coglie nella “Corrida” l’arte che lega la vita alla morte. I grandi narratori non inventano, colgono cose a noi celate dagli dei e ce le donano nella speranza possano aprire spiragli e completare il puzzle di cui sopra. E il Brasile? Manca il Brasile per completare la trimurti latinoamericana del football. Buffa non si sottrae, e ogni volta che può ci ricorda come la malinconia sudamericana sia attutita dall’allegria “Carioca”. Con il suo “Carnevale” non vissuto come evento ludico, ma come mezzo di esistere. Garrincha o Pelè sono l’incanto descritto da Antonio Carlos Jobim e Vinicius de Moraes nella splendida “Garota de Ipanema”.
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Il calcio brasiliano sta tutto qui, nel cogliere l’attimo magico. Quando Federico Buffa smette di parlare, capisci come tra i tanti personaggi da lui raccontati deve essere stato Ferenc Puskas ad averlo trafitto di dolore. Il grande calciatore ungherese negli ultimi anni della sua vita fu affetto dal morbo di “Alzheimer”. Non ricordava più niente. Il calcio senza memoria è come una rosa senza petali, e davanti alla tomba di Puskas l’Avvocato avrà fatto fatica a non piangere mentre era intento a raccontare la sua storia. Riattaccare i petali ad una rosa a volte si può, Federico Buffa può. Teniamocelo stretto come una speranza.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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