“Se giudichi le persone, non
columnist
Enzo Bearzot: un uomo perbene
hai il tempo di amarle”.
Madre Teresa di Calcutta
Ricordo una vecchia intervista dell’inverno 1982 dove non mi era risultato abbastanza simpatico. Incalzato da delle banali domande, a tratti anche un po’ sciocche, di un giovane Giovanni Minoli, Enzo Bearzot mi aveva trasmesso una personalità un po’ snob, forse anche per quella pipa fumata ostentatamente per tutti i venti minuti dell’interrogatorio del giornalista torinese. Quell’aver voluto fumare a tutti costi mi era apparso come sintomo di un vezzo, di un volersi a tutti i costi distinguere. La nazionale italiana era reduce da una sconfitta con la Francia in una amichevole parigina, e lo scetticismo intorno al tecnico friulano era aumentato a dismisura. Da Milano gli rimproveravano di non prendere in considerazione Evaristo Beccalossi, all’epoca icona assoluta del mondo neroazzurro. A Roma non gli perdonavano di considerare Roberto Pruzzo quasi un centravanti di risulta. Tutti, o quasi, si erano dimenticati del 4 posto ai mondiali argentini, con relativo bel gioco mostrato. Forse il miglior gioco degli azzurri mai visto da quarant’anni a questa parte. Italia del profeta Arrigo Sacchi compresa, che di bel gioco ai Mondiali statunitensi proprio non ne mostrò.
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L’Italia calcistica è sempre stata mal sopportata all’estero, con tutte quelle leggende sul suo prediligere il difensivismo ad oltranza, come se la Danimarca e la Grecia avessero vinto gli europei del 1992 e del 2004 con spettacolari schemi d’attacco. Ma i danesi forse sono più saggi (scaltri?) degli italiani, e sulla loro vittoria del ‘92 in seguito producono un gradevolissimo film celebrativo (consiglio di vederlo), esaltando orgogliosamente la loro impresa. Si ha la sensazione come all’Italia non venga perdonato mai niente, come se ogni suo successo fosse frutto solo di scaltrezza e capacità di rapina. Quindi non degno di nota. L’assenza di Sepp Blatter durante la premiazione della vittoria azzurra dei Mondiali 2006 ne fu un’altra, ennesima, spiacevole prova. C’è qualcosa di intrinsecamente perverso nel continuare ad affermare che il suo “mundial” spagnolo, Bearzot, lo abbia vinto con il contropiede. Nel vincere in contropiede non trovo nulla di malevolo, ma personalmente quel Mondiale dell’Italia non lo ricordo così. Non ricordo la vittoria in semifinale con la Polonia con quelle che oggi si chiamano “ripartenze”, e non ricordo una finale con una Germania sempre in attacco e un’Italia sempre chiusa in difesa. L’Italia la finale del “Bernabeu” la dominò letteralmente, e a mia memoria non ricordo una Germania così soggiogata nel gioco e nello spirito in un incontro fondamentale di un Mondiale. Chi segue il gioco del calcio sa che vincere con i tedeschi non è mai facile, chiedere informazioni alla “Grande Ungheria” di Puskas e soci. Eppure sembra nulla sia mai sufficiente per gli italiani, che debbano sempre dimostrare chissà cosa, come se suscitassero costantemente un’invidia latente pronta a venire fuori in qualsiasi momento.
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Certo non aiuta una classe intellettuale italica sempre tesa a giurare e a voler dimostrare come in fondo, in Italia, tutto faccia un po’ abbastanza schifo. L’Italia, povera di materie prime e di qualsiasi peso geopolitico e militare, diventa una delle prime cinque potenze industriali del mondo? È, per questa classe di illuminati, solo culo (ops,perdonate il francesismo) e anche un po’ incomprensibile, perché gli italiani sono cialtroni e anche troppo inclini alla furbizia. E la fortuna, notoriamente, aiuta gli audaci non gli stronzi (ops,perdonate il secondo francesismo). Quindi diventa quasi logico suscitare un sospetto di scippo all’aristocratico Brasile di Zico e Socrates, destinato a vincere quel Mondiale spagnolo per diritto divino. Strano come pochi ricordino il gol del 4 a 2, regolarissimo, annullato a Giancarlo Antognoni in quella che è stata definita forse la più bella partita della storia del calcio. Ci vuole un certo coraggio, da parte di qualcuno, per continuare a considerare uno scippo quello di un’Italia capace di segnare ben quattro reti regolari ad una delle nazionali più forti di sempre. Una nazionale che fino a quel momento, sotto la guida di Telè Santana, non aveva perso una partita. Ma il destino dell’Italia, non solo nel calcio, è sempre quello di avere qualcuno o qualcosa a remarle contro. Non si riesce mai ad ammettere la sua particolare grandezza, nemmeno quando va a vincere contro la Germania la semifinale dei Mondiali 2006. Gli azzurri non solo vincono in casa dei tedeschi, ma violano lo stadio di Dortmund dove i teutonici non avevano mai perso. Gli azzurri, secondo i salotti buoni internazionali, avevano ancora una volta peccato di lesa maestà. Ecco spiegato lo sgarbo di Blatter e la sua assenza alla premiazione dopo la finale.
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Enzo Bearzot era nato ad Aiello del Friuli, un piccolo centro a circa sessanta chilometri dal confine con la Slovenia, in una di quelle porzioni di terra dove hanno lottato per generazioni per avere la sicurezza di poter essere finalmente italiani. Può solo immaginare, chi non ha vissuto sulla propria pelle l’irredentismo, quale sorta di orgoglio deve essere stato per l’uomo con la pipa, non solo di essere stato posto a capo di una delle cose più care ed emozionali degli italiani, ma addirittura aver riportato in Italia la Coppa del Mondo. Il Friuli è terra di confine, e in ogni confine bisogna essere duri e soprattutto coerenti con se stessi per sopravvivere. Un confine, per sua stessa natura, non può essere incline a compromessi e richiede decisione in ogni istante di vita. Ecco perché, dopo aver toccato con mano il famoso detto aristotelico come “la cosa ad invecchiare prima sia la gratitudine”, a Bearzot non stupisce più di tanto la velocità con cui la stampa e la pubblica opinione si dimenticano dello splendido campionato del mondo argentino vissuto nel 1978. Qualche giornalista, nei tormentati mesi antecedenti i mondiali spagnoli, arriva a definirlo lo “scemo del villaggio”, e la gente lo insulta per strada e lo minaccia al telefono di casa. Lo scemo del villaggio, per intenderci, era quello che aveva coraggiosamente schierato titolari i poco più che ventenni Paolo Rossi e Antonio Cabrini in un Mondiale, quello del 1978, destinato, anch’esso per diritto divino, all’Argentina della dittatura militare. Anche lì gli azzurri compiono un capolavoro e sono gli unici a battere i presunti dei del momento, attirandosi l’ira di tutto il contesto del mondiale argentino. Trovate un’altra nazionale di calcio capace di compiere imprese così, altro che italiani indolenti e furbescamente cialtroni.
Ma l’uomo di confine con la pipa pare non sorprendersi di questa mancanza di memoria e gratitudine della sua gente, e si concentra sul portare a termine una missione alla quale pare credere lui e lui solo: vincere il Mondiale sfiorato in Argentina quattro anni prima. Bearzot è persona spigolosa e permalosa, ma dotata di intelligenza rara e grande intuito. Molti sostengono, anche in Italia, come la vittoria iridata spagnola sia stata solo un colpo di fortuna di un tecnico che in un club non avrebbe vinto mai nulla. Ma aver puntato e aspettato Paolo Rossi non fu un colpo di fortuna, ma una conoscenza infinita della natura umana e della natura del gioco del calcio. Enzo Bearzot sapeva “leggere” la vita, e forse aveva imparato a farlo anche nelle sue 230 partite come mediano roccioso del Torino, una squadra dove si gioca a pallone e dove si ha la possibilità, per chi vuole e abbia la sensibilità giusta, di prendere lezioni di esistenzialismo.
Anche la società granata, spiace dirlo, dimentica presto un uomo che dichiarerà sovente come al Toro abbia sempre riservato un posto speciale nel suo cuore. Lasciato il suo incarico dalla nazionale nel 1986, l’uomo di confine è scivolato via dal mondo del calcio senza nulla chiedere e senza nulla pretendere. Nessun club ha avvertito la necessità di avvalersi della sua esperienza, nessuna istituzione ha pensato bene di ricordarlo in qualche modo. Nessuna via e nessuna piazza porta il nome di quest’uomo che ha regalato ad una nazione intera attimi di gioia irripetibili e due Mondiali in cui il calcio italiano ha lasciato segni inequivocabili. “La vita sceglie la musica, noi scegliamo come ballarla”, ha scritto qualcuno forse volendo indicare come siano le scelte veramente a definirci, come la vita non costituisca mai condanne o assoluzioni predefinite. Nemmeno i Mondiali vinti nel 1934 e 1938 l’Italia riuscì a farseli considerare meritati. C’era una dittatura con cui tutti, in giro per il mondo, le chiedevano di fare i conti, e questo finì per travolgere di malignità e pettegolezzi le due vittorie iridate e persino Vittorio Pozzo, vilmente accusato di essere fascista, lui che non aveva mai voluto prendere nemmeno la tessera del partito. La realtà è che Pozzo aveva messo in piedi una squadra di assoluto valore mondiale, facendo palpitare il cuore dell’adolescente Bearzot, che così ebbe a ricordare il giorno della vittoria del 38: “Eravamo tutti nella piazza di Gradisca a sentire la voce di Carosio dagli altoparlanti”. Enzo Bearzot era un uomo di confine, e come tutti gli uomini di confine sapeva bene quanto fosse importante difendere tutto ciò esistente dietro quel perimetro. Era un uomo perbene, era l’Italia che prende pugni sul naso fino a farselo schiacciare, era il simbolo di un Paese con la capacità di sorprenderti sempre. Specie quando qualcuno, persino i suoi intellettuali, pensa sia ormai irrimediabilmente morto. Grazie Enzo.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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