columnist
Essere un Presidente
“Siamo il credito che ci danno”.
Josè Saramago
Un primissimo pomeriggio romano di qualche anno fa. In uno dei tavoli della struttura esterna del ben frequentato ristorante romano “Il Matriciano”, un uomo dai vestiti da alta sartoria a fasciare i contorni di un fisico opulento, è con il capo chino su una schedina del superenalotto. Lo sguardo, da sotto gli occhiali in fibra di carbonio, è di quelli attenti e alla ricerca di una qualche scaltrezza da utilizzare al tavolo della fortuna. Sono i giorni febbrili, ormai divenuti un “topos” della cultura antropologica italiana, precedenti l’estrazione di sei numeri potenziali assegnatari di un “jackpot” dall’ammontare monstre. Ecco perché Claudio Lotito, in arte presidente della Lazio, in quel pomeriggio di gradevole calura è immerso nei pensieri dell’insondabile. Qualche minuto prima si era finito di parlare di calcio, della contestazione irriducibile nei suoi confronti da parte di una frangia nutrita dei tifosi laziali, della sua idea di come gestire il calcio italiano. Citazioni latine, da lui adorate e a volte ostentate, comprese. Ma al momento del rito dei numeri del superenalotto si era appartato nel lato più lontano del curioso “roof garden” da “strada” organizzato da Alberto Colasanti (padrone di casa del Matriciano e noto tifoso romanista) e le sue figlie in quella Via dei Gracchi che declina a finire davanti alle splendide “Mura Vaticane”. Le cose serie richiedono massima attenzione. L’atmosfera di quiete quasi mistica, viene rotta da un tizio da una moto che, accortosi chissà come dell’oggetto della maniacale attenzione del presidente biancoceleste, gli urla con aria scanzonata: “A presidè, ma se vinci li sordi li metti nella squadra”? Lotito alza appena lo sguardo dal tavolo, e si capisce come la risposta istintiva che vorrebbe dare al disturbatore molesto sia il classico detto in slang romano “sei simpatico come ‘n gatto aggrappato a li cojoni”.
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Ma poi, ricordandosi di essere romano fino all’inverosimile e quindi dotato di un’ironia senza confini, regala la risposta meno populista che mai ci si sarebbe potuta aspettare: “ma che sei matto? I sordi, se li vinco, me li tengo io”. Quel giorno, ripensandoci, Claudio Lotito diede una sintetica e quanto mai efficace lezione di come si gestisca una contabilità societaria separata da quella personale. Perché sull’amministrare i suo affari personali e societari, a detta di chi lo conosce bene, è davvero insuperabile e con punte di genio innegabili. L’imprenditore capitolino, in quel pomeriggio surreale romano, ha inoltre chiarito in modo inequivocabile come nel calcio sia assolutamente folle pensare di attingere al patrimonio personale per rincorrere qualche vittoria. Tutto deve nascere e crescere all’interno di un business calcistico, prospetticamente così florido da avere pochi rivali al mondo. Chiaro che quando ti chiami Lazio, e non Juventus o Inter, il segreto per arrivare alla soddisfazione di positivi risultati sportivi consiste nell’aumentare costantemente la produttività, ovvero il massimo profitto della “merce” venduta a fronte di un investimento contenuto per la realizzazione della stessa. Non esistono altre strade quando dietro un club non c’è un conglomerato economico o fondo sovrano a fare da parafulmine e rubinetto di “venture capital”. Ma per aumentare la produttività in assenza di considerevoli investimenti, il capitale umano diventa quanto mai imprescindibile. Ecco perché la qualità più importante di un presidente di un club calcistico, in azione in un orizzonte contemporaneo iper competitivo e con regole di mercato a fare da padrone, è quella di saper scegliere gli uomini giusti da posizionare nei posti chiave della società. Perché se c’è una cosa che la Lazio di Lotito ha dimostrato, è come i soldi siano certo importanti ma non la sola cosa a determinare il successo di un’impresa. La Lazio, è bene ricordarlo, ha vinto ben due finali contro la super Juventus dominatrice assoluta del panorama calcistico italiano degli ultimi dieci anni. Quindi si può aumentare la produttività nel calcio (quasi un ossimoro se si parla di uno sport altamente professionale), arrivando addirittura ad accedere ad un ottavo di finale di Champions, come l’Atalanta ha dimostrato. Igli Tare e Gabriele Zamagna (rispettivamente direttori sportivi di Lazio e Atalanta), sono certamente tra i protagonisti di quella che oserei definire un esempio per una “terza via” per l’economia del terzo millennio, e non solo nel calcio. La storia di Igli Tare ha poi dell’incredibile, per quanto sia un esempio da portare sin dentro le aule universitarie. Tare deve tutto a qualcosa che parrebbe in via d’estinzione dal pianale delle decisioni di business, ormai completamente affidatesi ad algoritmi e numeri matematici: la fiducia tra gli uomini. A 35 anni, l’attaccante di origini albanesi, entra nell’ufficio di Claudio Lotito nella speranza di avere un ultimo rinnovo contrattuale da giocatore, e ne esce con la vita completamente stravolta: il presidente biancoceleste ha scelto lui nel ruolo di nuovo direttore sportivo della Lazio: “sei ancora un ragazzo inesperto -gli dice Lotito- ma spero che mi ricompenserai”.
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La scelta di Igli Tare per un ruolo così delicato fu giudicato all’epoca, dalla totalità della piazza romana di fede biancoceleste, un azzardo quasi intollerabile. E, ovviamente, seguirono le ennesime contestazioni e polemiche verso un presidente in perenne stato d’accusa operato dalla sua tifoseria. In un mondo preso dal pensiero “banco centrico”, dove sono solo le “pezze” razionali a contare(curriculum, garanzie bancarie, circuiti amicali o di potere) , Claudio Lotito compie una scelta con la stessa modalità con cui Ferruccio Lamborghini scelse Paolo Stanzani, giovanissimo e neo laureato in ingegneria, in un ruolo chiave per lo sviluppo della sua nascente produzione di automobili super sportive e di lusso. Stanzani, che sarà uno dei padri della celebre “Miura” e soprattutto della “Countach”, venne scelto, da uno dei più grandi e geniali imprenditori mai nati in Italia, in base alla fiducia e all’intuito, di cui il fondatore della “Lamborghini” era ben fornito. Perché la capacità di riconoscere un talento e la sua adattabilità ad un’impresa, è davvero l’unica dote necessaria ad un “capo”. Per la spregiudicatezza basterebbe un buon amministratore delegato e per la quadratura dei conti finanche un buon ragioniere. Ma la scelta degli uomini giusti è veramente questione riservata a pochi, baciati dal Creatore con una bussola incorporata all’inizio di ogni tempo. Le persone non sono una funzione, e non possono esserlo perché c’è quella parte del mistero dell’esistenza talmente insondabile da non poter essere in alcun modo razionalizzata. Ce lo dice persino, dal 1927, il “Principio di Indeterminazione” di Werner Heisenberg, una sorta di resa del razionale davanti al mistero insito nella natura. Comprendo l’entusiasmo dei tifosi della Roma per l’imminente acquisto della società giallorossa da parte di Thomas Friedkin, dotato di un patrimonio da “Forbes” stimato intorno ai 4 miliardi di dollari. E’ l’entusiasmo donato dal denaro messo facilmente, apparentemente, a disposizione dei più arditi sogni di gloria sportiva. Ovviamente auguro ai tifosi giallorossi di aver trovato la “Cornucopia” adatta a far quadrare aritmetica, sogni e risultati, anche se bisognerà aspettare gli eventi a conferma di ogni buono proposito. Personalmente continuo a pensare al calcio come una possibile forma di ribellione alla logica del denaro e dell’aritmetica, ed è questo l’insegnamento recapitato da Lazio e Atalanta. Il denaro e l’aritmetica sarebbe auspicabile venissero dopo aver deciso come vogliamo vivere in questo mondo, in modo da piegarli alle nostre esigenze. Qualcuno sarà pronto a dire come ciò sia passato remoto, specie i neo liberisti che di mestiere fanno i procacciatori di nuovi schiavi al nuovo dio della religione monoteista della modernità: il denaro.
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I neo liberisti, sprezzanti di tutto ciò non posseduto dal libero mercato, staranno lì sempre con calcoli e tabelline a convincervi della loro scienza e della loro abilità, e al fatto come non ci sia alternativa a questa nuova religione monoteista. Tutto deve essere a lei standardizzato. Ernest Hemingway una volta disse che “il modo migliore per scoprire se ci si può fidare di qualcuno è di dargli fiducia”, e forse è proprio questo il migliore augurio che possiamo farci per il futuro. Perché il calcio è l’impossibile che si materializza ogni volta, a ricordare come i sogni, necessariamente, debbano passare dalle decisioni degli uomini. Decisioni a volte prese in un istante. E al diavolo curriculum e tabelline.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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