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Fai la cosa giusta

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Loquor / Torna l'appuntamento con la rubrica di Anthony Weatherill: "Lo stadio vuoto al tempo del Covid-19 è in qualche modo diventato un segno di resa al male oscuro, un togliere vita a qualcosa nata per contenerla"
Anthony Weatherill

“La cosa peggiore che puoi

fare è non fare nulla”.

Theodore Roosevelt

Quale è il mio compito su questo pianeta? Cosa deve essere fatto, di cui io devo sapere qualcosa, che probabilmente non accadrà a meno che io non me ne assuma la responsabilità? Che cosa è quel di più che ci renderà straordinari? Sono domande, queste, talmente imponenti e qualificanti, che se solo provassimo a dargli una risposta, la conseguenza immediata sarebbe un’importante e caratterizzante assunzione del dover fare per forza qualcosa con la caratteristica del sacrificio e dell’impegno inderogabile. Sono questioni che non ammettono passi indietro o compromessi con noi stessi, e sono questioni da cui non si devono attendere applausi o consensi. Ci si impegna perché è giusto, non perché ci si aspetti qualcosa dall’ambiente circostante, che probabilmente è anche possibile si rivolti contro. Steve Jobs, parlando della “Apple” e del suo concetto esistenziale innervato in ogni suo prodotto, si soffermò sulla figura del grande falegname che “Non usa del legno scadente per lo schienale di un mobile, anche se non lo vedrà nessuno”. Ecco, fare la cosa giusta, anche se nessuno se ne dovesse accorgere, può essere uno dei “fatti” a rendere più decenti le nostre vite.

Stanno accadendo molte cose angosciose in questi ultimi tempi, che provano non la nostra resilienza, ma la nostra capacità di stare al mondo osservando il nostro ruolo. Il mondo dello sport, e non solo quello professionale, è stato chiamato a confrontarsi con un virus che sembra essersi appalesato proprio in antitesi con una pratica che, per forza di cose, ha bisogno di spazi aperti, di respiri affannosi e profondi, di percorsi umani di “contatto”, di qualcuno “assembrato con altri” ad osservare lo sforzo e lo scontro fisico atto a disegnare spazi di memoria leggendari e momenti di poesia irripetibili. E non c’è resilienza nel rinunciarvi, ma solo un incomprensibile scappare dal creato. Mi ha fatto pensare una recente splendida intervista di Victor Osimhen, dove nel rievocare la sua infanzia molto povera, ha definito Lagos “un luogo dove non c’è speranza, dove nessuno ti dice di credere in te”, ma che nel calcio ha trovato una speranza per “vivere una vita dignitosa e credere in me stesso”. Arrivare a credere in se stessi, non è poco per uno dall’infanzia passata a vendere acqua per le strade del suo Paese, nella speranza di portare anche una piccola fonte di reddito alla sua famiglia. Credere è sempre un’azione attiva, è fare qualcosa, è porsi un obiettivo, è voler arrivare a tutti i costi al chilometro supplementare, da soli e con la sfida che ci siamo assegnati. Perché se la resilienza è la capacità di assorbire un colpo, credere è la volontà di volerlo sferrare un colpo, ovvero provare a lasciare qualcosa di sé su questa terra.

I campioni, e non solo nello sport, sono quelli che “vanno oltre”, e che non hanno paura di arrivare da soli e stremati a quell’ultimo miglio supplementare. In quell’ultimo miglio di solitudine non trovano solo qualcosa per loro stessi, ma lasciano anche tracce utili per chi verrà dopo di loro. Il campione non potrebbe vivere solo per se stesso nemmeno se lo volesse, nemmeno se fosse il più cinico tra gli uomini. Nel suo cammino verso la vittoria, il campione dissemina atti di speranza, segni di una volontà che non è di un singolo, ma di generazioni di uomini che lo hanno preceduto o che lo tramanderanno. Nella logica aristotelica la Storia credibile e rilevante deve avere “ethos”, cioè autorità e comprensione del soggetto, e “logos”, cioè il senso del razionale. La logica del filosofo greco è fondamentale per traslare la visione in azione, perché agisce come ripetitore continui di significati tra i vari mondi confluenti nell’esistenza. Tutto, quindi, comincia a diventare metafora, rendendo viva la storia e dando la possibilità, ad ognuno di noi, di poter riscrivere il futuro. Forse il significato dello sport sta tutto qui, perché esso facilmente si presta a diventare “linguaggio”, premessa fondamentale di occasioni di stare insieme e vivere. Il calcio è il luogo metafisico più trasversale del mondo, dove il linguaggio nato attorno ad una palla che rotola si trasforma rapidamente da mistero a racconto da tramandare. Mi ricorda un tizio, in un tempo che fu, seduto ad un tavolo stracolmo di commensali ormai alticci, discorrere con sicurezza tautologica come “non tutto nella Bibbia è successo veramente, ma vi assicuro che è tutto vero”. È il rito ad occuparsi a mantenere tutto vero, e lo fa, generalmente, nei suoi luoghi predisposti, premessa necessaria affinché ogni sottotesto del rito giunga chiaro nel dibattito simultaneo continuo tra il cuore e la mente.

Lo stadio sa bene come i rituali raccontino la nostra storia, coinvolgano la nostra gente, rendano reale l’intangibile. Lo sa così bene, che bada bene ogni volta di sottrarre emozioni dai tifosi per andare a custodirli in qualche anfratto della sua struttura. Gli ingegneri e gli architetti hanno consapevolezza come mattone e cemento siano materiali inanimati solo in apparenza, perché essi prima o poi diventeranno “luogo”, dove ogni cosa avviene necessariamente. Lo stadio vuoto al tempo del Covid-19 è in qualche modo diventato un segno di resa al male oscuro, un togliere vita a qualcosa nata per contenerla e per assicurare come tutto sia vero. Lo stadio pieno di gente non è solo un fatto economico, anzi il fatto economico è semplicemente l’aspetto marginale della vicenda. Essersi rassegnati al suo svuotamento improvviso, senza nemmeno aver provato a tentare una soluzione di ridurre, ma almeno di salvarla, la presenza, è stato come aver rinunciato al sacrificio dell’ultimo miglio, ha significato buttare via un foglio bianco senza neanche provare a scriverci qualcosa sopra. Uno stadio di quarantamila persone potrebbe contenerne diecimila salvaguardando le giuste regole del distanziamento sociale in tempo di Covid? Varrebbe la pena, da parte di chi ci governa, provare a rispondere a questa domanda, giusto per non arrendersi senza combattere alla resilienza, parola adottata da chi pensa di sostituire il vivere al sopravvivere, con l’unico risultato di averla fatta diventare quasi un ossimoro. Chiamare al tavolo tecnico/scientifico anche ingegneri e architetti per affrontare la nuova vita da Covid-19, potrebbe essere un’idea affatto malvagia. Se dobbiamo arrenderci al timore perenne del contagio, almeno si prevedano luoghi sicuri in cui ci si possa tornare ad incontrare, per viverla questa benedetta vita. Costruire non è solo un fatto economico, è antropologia culturale, è creazione di valori,è salute fisica e mentale. Louis Kahn giustamente ebbe ad osservare come “l’architettura è ciò che il luogo si aspetta. L’architettura è ciò che fa diventare “luogo” un posto. Prive del pensiero che produce un’architettura, lo spazio non è che vuoto ricettacolo in attesa”.

Se Kahn ha ragione, ed io penso l’abbia, allora è davvero fallace la convinzione di qualcuno convintosi ormai come la salute riguardi solo la circolazione di un virus. Nel caso del calcio la presenza della gente è ciò che fa diventare il luogo un posto, e sarebbe stato interessante ascoltare le riflessioni di Aristotele, uno per cui è impossibile scindere la fisicità e la spiritualità del luogo stesso, davanti ad uno stadio occupato in ogni ordine di posto. Trovare un sistema architettonico/ingegneristico pratico per far diventare possibile il ritorno allo stadio, non sarebbe solo una via per un ritorno economico, ma anche una lotta fattuale contro il pericolo di alienazione alla vita che tutte le generazioni del Covid19 stanno correndo. Sarebbe la dimostrazione dell’uomo non arrendevole al fato avverso, non sempre prono al compromesso al ribasso. Giorni fa ho assistito, al “Laghetto” del quartiere “Eur” di Roma, a delle gare di “Canoa-Polo”, un gioco con molte similitudini con la pallanuoto. C’erano giovani atleti provenienti da tutta l’Italia, e conseguenti miscugli di dialetti ad incontrarsi tra acqua e canoe. Nell’atmosfera quieta di una classica domenica romana di ottobre, amici e famiglie si sono ritrovati ad assistere alle gare. Le parole allegre e concitate dei bambini, l’abbaiare di cani tesi ad annusarsi reciprocamente, il viso tranquillo e disteso degli adulti, mi ha fatto benedire l’esistenza dello sport e dei luoghi d’incontro. Ho guardato l’acqua, mi sono lasciato accarezzare da un vento appena freddo, e ho ricordato una bellissima frase di Osvaldo Soriano: “Non discutere col gatto. Chi dorme sul divano è lui”. Ho chiuso gli occhi e, per un attimo, mi sono addormentato felice. It’s true!

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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