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Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 
Torna "Loquor", la rubrica a cura di Carmelo Pennisi, con un nuovo appuntamento

“Non fare mai lo stesso errore, a meno che non ti porti profitto” Mae West

In un mondo europeo in sgretolamento, sia nei valori che nelle visioni, lo sport non si sta mostrando all’altezza come antidoto esistenziale contrapposto all’assurdo. Si continua a pensare con la logica dei risultati, ma c’è difficoltà a chiedersi le modalità con i quali questi arrivano. Bastano un paio di risultati positivi o negativi per cambiare percezione del mondo circostante, e le opinioni traballano peggio di un avvinazzato appena uscito da una osteria. Si vive di umori e di commenti social rilasciati con una superficialità da far temere per il futuro del nostro Paese. Gli “agitprop” non pensino di non essere sgamati, non siano così convinti di passare inosservati solo perché si intersecano con astuzia tra la rabbia e la speranza. L’esperienza, il mestiere, la cultura, l’intuito contribuiscono a farli riconoscere facilmente: non sono tifosi di una squadra di calcio, sono iene avvilite nel profondo dalla loro mediocrità esistenziale. Sovente, costoro, sono usati da coloro che, rimanendo nell’ombra, auspicano rimanga esattamente tutto come è. Sono vili e complici, e sono infastiditi da qualsiasi dubbio si ponga ai loro pregiudizi sulla realtà. Costoro non vogliono si faccia nessuna domanda, nemmeno teorizzare dubbi gli va bene. Persi nelle loro battute prestampate da bar, attraverso le quali credono sul serio di essere spiritosi e sagaci, sono davvero convinti di poter offendere chi porta avanti un lavoro attraverso mille difficoltà. Sono tutti Pancho Villa e Che Guevara davanti ad una tastiera, tanto quando spengono il computer o lo smartphone scivolano nel gozzoviglio del loro niente.

Sarebbe così facile, a volte, seguire l’onda e non inimicarsi un presidente troppo potente rispetto a chi si occupa di comunicazione. Dietro i giornalisti ci sono famiglie, ci sono speranze, ci sono vite da portare avanti e di cui si ha la responsabilità, ci sono casse integrazioni a zero ore di cui tenere conto. Eppure alcuni di questi non esitano, in nome della verità e perché sono persone perbene, a provare a cercare di raccontare come stanno le cose nello sport più seguito al mondo. C’è gente che non si tira indietro e onora la professione. Potrei fare i nomi di alcuni di questi, ma non vorrei metterli in imbarazzo. Un giornalista di calcio intento continuamente a fare agiografia sul presidente di un club, fa invece perdere di senso ad un mestiere nato per dare “fastidio” non per confortare o celebrare, se non in alcuni particolari e opportuni momenti. I giornali e i contenuti confezionati attraverso piattaforme di ogni genere si devono provare di certo a vendere, ma ciò dovrebbe mai avvenire a discapito della verità o dell’esposizione reale dei fatti (serve specificare come l’esposizione reale dei fatti e la verità potrebbero non convergere?).

Nella vicenda di mercato di Victor Osimhen, per esempio, gran parte della stampa napoletana non ha dato il meglio di se, preferendo tramutare una sordida “corrida” di interessi, quella tra il giocatore e il club, in una ricostruzione della storia dove Aurelio De Laurentiis è divenuto una sorta di “Masaniello” 2.0 opposto ad un Osimhen, e al suo procuratore, descritti come famelici perturbatori del cuore del tifo partenopeo. Andando sui social si possono ancora leggere commenti di giubilo nell’ipotesi, per giorni ventilata e promossa dalla stampa locale, di vedere il giocatore parcheggiato in tribuna per punirlo dal suo aver ostentatamente manifestato, nell’ultimo anno, di voler andare a giocare altrove. I tifosi, che sovente hanno un rapporto di odio/amore con i calciatori a cui non perdonano la smodata ricchezza (l’invidia sociale, specie in questi tempi difficili, è umana e viene fuori violentemente ogni qual volta i nostri idoli cessano di essere tali), sono immediatamente sedotti da questa forma deprecabile di propaganda, tesa a distruggere persino l’agibilità di una persona di esercitare il suo lavoro. La sensazione, a volte, è quella di una “Sentenza Bosman” mai avvenuta. L’etica e la morale sono naturalmente qualcosa sempre di auspicabile nella vita, ma nello svolgimento delle professioni o nell’emergere degli interessi le cose diventano grigie, opache, si attorcigliano fino a diventare indefinite. Difficile sul serio capire, volendo tenere presente come stella polare l’etica e la morale, le ragioni di una riunione di condominio piuttosto che della guerra tra israeliani e palestinesi. Però bisognerebbe sempre provarci, o almeno questo dovrebbe essere uno dei compiti della buona stampa. Tenendo ancora presente il caso Osimhen, una contesto appare estremamente chiaro: il Napoli da mesi aveva fatto capire al mondo come volesse monetizzare oltre i cento milioni di euro la cessione della punta, al fine di pagarsi un mercato da svolta copernicana da regalare al nuovo progetto tecnico, mentre Osimhen ha cercato la soluzione professionale più ambiziosa e remunerativa possibile. In questo scontro di interessi non c’era da prendere una parte, ma semplicemente registrare i fatti, infarciti da una sequela di errori a confermare un calcio sovente privo di un management serio e affidabile.

Una delle caratteristiche di questa modernità relativa è quella di aver reso tutti un po’ smemorati, concentrati come siamo sul presente dimentichiamo con facilità il pregresso e le scelte fatte da tutto il mondo del calcio nel suo complesso(una cosa bisogna dire chiara: i tifosi sono assolutamente i meno colpevoli di tutta una serie di cambiamenti, subiti loro malgrado). In mancanza di investimenti strutturali a valorizzare il club come una vera e propria impresa, il “player trading” è divenuto la principale fonte di guadagno, e di molteplici interessi non emersi, di molti club, creando la dannosa contraddizione di aver trasformato il giocatore in un bene fungibile, non più assimilabile al valore della maglia. Ritenere colpevole esclusivamente la “Sentenza Bosman” di questo cambiamento è una perniciosa mistificazione, e ributtare tutto il male nel campo dei giocatori e dei loro procuratori, dimenticandosi sorprendentemente di quanto i club guadagnino (ripeto: anche nel sommerso che non emergerà mai) dalla continua girandola del mercato. La scelta di puntare sulla fungibilità ha penalizzato tutto ciò che è infungibile, impedendo su quest’ultimo aspetto investimenti necessari, e sicuramente più impegnativi per le tasche dei proprietari dei club, e quanto mai urgenti, specie per dare alla voce ricavi una concretezza prospettica attualmente assente nei “business plan” di molti club.

La cessione improvvisa e veloce di Raoul Bellanova dal Torino all’Atalanta, foriera di forti contestazioni nella tifoseria Granata, rientra proprio nella logica della svolta copernicana del calcio contemporaneo, in cui tutto è diventato fungibile e il concetto di eternità continua esclusivamente a sopravvivere nel colore di una maglia (e non sempre, basta vedere la filosofia di Red Bull ogni qual volta acquisisce la proprietà di un club). Scaricare sui procuratori le fine dei rapporti di Osimhen e Bellanova con i loro club, vuol dire non avere proprio presente cosa sia oggi la nuova natura del calcio. I quali procuratori si fanno ben pagare per essere utilizzati come fogna dove canalizzare tutte le contraddizioni dello sport più seguito al mondo, avendo cura di lasciare senza fastidi il business a comandare e solo quello. Crocifiggere Teun Koopmeiners perché ha attuato ogni strategia possibile per andare a giocare alla Juventus, è conclamata retorica da salotto in un calcio dove la parola data e la solidità di un contratto sono scomparsi dall’orizzonte di ogni suo protagonista (presidenti, calciatori, procuratori, dirigenti federali, ecc… ecc…). Il De Laurentiis creduto oggi un “Masaniello” è lo stesso che nel 2016 ha brigato con Nikola Maksimovic e Amadou Diawara, all’epoca rispettivamente in forza al Torino e al Bologna, per portarli a tutti costi al Napoli contro i voleri dei loro club di appartenenza. Per chi avesse perduto la memoria: i due giocatori non si presentarono al ritiro precampionato, forzando in modo scorretto la loro cessione (qualcuno, caduto dal pero, potrebbe replicare come non ci siano prove di una strategia del Napoli dietro l’allora comportamento dei due sciagurati, e avrebbe ragione. Allora facciamo che casualmente finirono al Napoli, suo malgrado e per frutto del caso). Il presidente del Napoli ha avuto il coraggio di valutare tre giocatori della primavera e un portiere ormai sulla soglia del ritiro, oggi scomparsi da ogni radar, 20 milioni di euro nell’ambito dell’acquisto di Victor Osimhen dal Lille. Questo non è andato forse, tanto per fare un esempio, contro ogni regola di lealtà(come minimo) sulle regole dell’ammortamento sulla compra/vendita dei giocatori volute a suo tempo dall’Uefa? Siamo sicuri che Aurelio De Laurentiis e tutta la stampa napoletana, che all’epoca chiuse gli occhi e anche le orecchie di fronte a tale scempio, siano quelli con la patente giusta per parlare di etica e morale a Victor Osimhen e al suo procuratore? “Ma mi faccia il piacere”, avrebbe detto il grande Totò. Meglio parlare d’affari, lo sciovinismo comunardo in salsa neoborbonica messo in scena da alcuni giornalisti napoletani e cavalcato dal furbo De Laurentiis, non è degno di una città che ci ha regalato il genio di Eduardo De Filippo e Massimo Troisi.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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