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Gleison Bremer e Antonio Conte: storia di contraffazione

Gleison Bremer e Antonio Conte: storia di contraffazione - immagine 1
Torna l'appuntamento con 'Loquor', la rubrica di Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“Dobbiamo essere saggi, non moderni”

Serge Latouche

Gleison Bremer capitano della Juventus, Antonio Conte allenatore del Napoli che applaude tifosi juventini dopo lo Juventus Napoli giocata allo “Stadium”, sono manifestazioni surreali di un calcio disperso, e che consente ad una famiglia, i Friedkin, di avere contemporaneamente le proprietà della Roma e dell’Everton. I “futuristi, che magari quando parlano di politica si dichiarano paradossalmente anche antifascisti(ma alla comicità involontaria oramai non c’è limite), si entusiasmano per queste barriere abbattute, a loro giudizio simbolo di un futuro finalmente sbarcato in Italia, un futuro gravido di sano professionismo e logica  di impresa. Era ora che diventassimo come gli Stati Uniti, dove le squadre delle maggiori leghe professionistiche cambiano città come una qualunque mise da maison di lusso. Bisogna essere contro la noia, contro tutti quei bacchettoni moralisti intenti sempre a voler fermare l’intrapresa, il sogno della “frontiera” che realizza sogni e produce emolumenti. Il calcio “sociale”, le racchette di legno, le fragole e panna di Wimbledon, le teglie di lasagne fatte in casa da dividere con i tifosi stanziati da anni nello stesso pezzo di gradinata, la maglia e il territorio che ne è emanazione… tutto finito, perché vecchio e stantio, lontano dal concetto di futuro, di glamour, di potenza. Un tempo certe cose non si potevano fare, le linee di confine stavano lì a dimostrare l’esistenza di una storia e di una memoria, l’immoralità risiedeva laddove non c’era nessun perché, ma solo una cassa ad emettere scontrini. Ma come è possibile noi si stia accettando tutto ciò? Da dove è iniziato il raggiro, con persuasione riuscita annessa, delle nostre coscienze? Confesso, a costo di apparire fuori dal tempo e con accenni di maturità mal riuscita, di aver provato smarrimento, e anche punte di ribrezzo, di fronte ad un Bremer capitano della Juventus intento a scambiarsi il gagliardetto con il capitano del Napoli Giovanni Di Lorenzo, analogia da distopia di George Soros invitato ad aprire un congresso della CGIL parlando della proprietà salvifica dei “prodotti derivati”.

Bremer a capo della Juve marginalizza il sentimento e lo prostra senza ritegno davanti non al conto corrente(quello anche), ma davanti alle esigenze di marketing dello show. E cosa dice questa esigenza di marketing? Non si esiti a diramare la “buona novella” del calcio che ha scelto le parole business e spettacolo per il suo orizzonte digitale, e le ha messe nella rete delle sue continue comunicazioni “urbi et orbi”. In questa opera di comunicazione non deve sorprendere un Antonio Conte, al termine di Juventus Napoli, completare l’opera di desacralizzazione cominciata da Bremer prima del fischio d’inizio della partita, andando ad applaudire mezzo stadio a tinte bianconere. “Ho omaggiato la mia storia”, potrebbe sottolineare l’allenatore salentino, che in una intervista, a proposito della sua juventinità, ha dichiarato: “la mia storia parla chiaro, 13 anni alla Juve da calciatore e 3 anni da allenatore…faccio parte della storia della Juventus per ciò che ho fatto e dato”. “Once upon a time” è il sottotesto dell’inizio di ogni racconto, e in quel c’era una volta non ci sono solo biografie a interagire ma anche fatti che hanno contribuito a connotare la storia di quelle biografie. Quando Conte va ad allenare l’Inter compie un tradimento dei fatti bianconeri, riducendoli ad accadimenti senza importanza, a trama da videogioco dove l’importante è solamente l’esigenza del ludico e del profitto. Il calcio, sin dalla sua genesi, è la risposta rivoluzionaria al moderna al libero mercato determinato a prendersi non solo il tempo, ma anche l’anima dell’Europa.

Su un prato verde si superano tutte le teorie socialiste e persino il verbo marxiano, si supera la coscienza di classe, poiché essa viene superata dall’amore incondizionato per una squadra che dissolve gli interessi di classe per rendere tutti uguali di fronte al rotolare di un pallone. Nazismo, fascismo , comunismo, tutti i totalitarismi novecenteschi hanno provato a soggiogare il calcio per perseguire potere, ma il calcio resiste. Lo stadio è il luogo d’incontro di una città, o di una parte di essa, e ci si incontra per vivere un “avvenimento” non per assistere ad uno spettacolo. E l’avvenimento del calcio racconta l’impossibilità per Alfredo Di Stefano di andare a giocare per il Barcellona o di Xavi di andare a giocare per il Real Madrid. Esso, l’avvenimento, è inserito in una lunga catena di fatti costitutivi di una storia. E se la storia la si è fatta, come si può tradirla? Una maglia non è il marchio di un fastfood e non è nemmeno “peronismo” ideologico, è il sigillo di un sentimento che ha siglato un accordo con la storia. Il sentimento non c’entra niente con l’identità, quest’ultima qualcosa acquisita per nascita e non per scelta. Il sentimento è la manifestazione più visibile della ragione di una scelta, di una militanza a cui si poteva aderire e anche sfuggire. Può tutto ciò essere messo in discussione in nome del professionismo e del business?

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Possono la modernità e il “futurismo” chiederci di abiurare a qualsiasi cosa in nome di uno spettacolo obbligato ad andare avanti con noi protagonisti? “Allenare il Napoli per me che sono del sud è orgoglio e soddisfazione”, e non si capisce se stia parlando sul serio, o se stia abbracciando lo “storytelling” neoborbonico coniato da De Laurentiis per vendere meglio il suo Napoli a tutti i nostalgici di Carmine Crocco  e Francesco II di Borbone, che vedono nell’ex imprenditore cinematografico non l’astuto imprenditore lesto nell’impadronirsi da un tribunale fallimentare il club partenopeo, ma addirittura il restauratore del “Regno delle Due Sicilie”. Fantasia e soldi aiutano a pasteggiare piacevolmente la realtà a proprio piacimento, e al nostalgico di “Franceschiello” va bene tutto pur di vincere, anche avere sulla sua panca lo juventino tra i più juventini del Paese. Un po’ come avere messo Napoleone Bonaparte a capo delle milizie zariste o Leonida al servizio di Re Serse di Persia, Sarebbero stati anche questi, se fossero avvenuti, fatti di non poco conto. E mentre al cuore Granata(almeno al mio) rode molto il capitano di ventura juventino Bremer, in diversi luoghi della Capitale sono apparsi dei manifesti colorati in giallorosso, con su scritto: “Daniele De Rossi il nostro vanto, Yankee go home”. Era dal tempo degli “autonomi” degli anni 60 e 70 che non risuonava l’invito agli americani di togliersi di torno in modo così esplicito, ma c’è da dire come nel giro di una settimana i Friedkin siano a riusciti a combinarne di ogni. Prima traumatizzano la parte giallorossa della città cacciando senza motivo Daniele De Rossi, poi, mentre da “Testaccio” a “Trastevere” stanno ancora elaborando il lutto, ecco arrivare l’annuncio della loro acquisizione della proprietà dell’Everton. “Per la Roma solo vantaggi”, hanno subito tenuto a chiarire i fratelli californiani, anche se non si capisce la natura di questi vantaggi.

Avendo chiarito come il calcio è un sinonimo di sentimento, appare a questo punto chiaro come la nuova frontiera inaugurata da arabi e fondi americani sia la poligamia. La maglia? E’ semplicemente un pezzo di stoffa cucito in Vietnam o in Cina assemblato con un marchio, che fa diventare un prodotto di cinque dollari una boutade calciofila venduta a 140 dollari negli store ufficiali dei club, i quali, in cambio di cospicuo “argent”, ne hanno appaltato ogni sezione di colore. “Il capitalismo? Libera volpe in libero pollaio”, pare abbia detto una volta Che Guevara, e un po’ fa male svegliarsi un giorno e scoprire la tua reale natura di pollo. “Si vuole trasformare tutto in economia – dice l’economista Serge Lautoche-, e tutto è una ossessiva ricerca della crescita”, una tendenza che abbiamo ereditato dall’evoluzionismo, ma assolutamente estranea alla biologia “dove un seme quando cresce non diventa un seme grande. In natura la trasformazione è qualitativa, e non quantitativa”. Le parole di Latouche svelano l’inganno presente anche nel calcio, di cui è stata stuprata la sua natura costitutiva, che a livello qualitativo aveva appartenenza, socialità e il “giochiamo per voi”(i tifosi). Oggi si gioca solo ed esclusivamente per i ricavi, e molti ancora non hanno capito sul serio come questo abbia mutato definitivamente lo sport più seguito al mondo. Mi sarebbe piaciuto che Gleison Bremer, una volta ricevuta la proposta di indossare la fascia dei capitano della Juventus, avesse prontamente risposto: “mi spiace, non posso farlo. Vengo da una terra dove in ogni angolo, ricco o povero che sia, si mangia “churrasco” e si mastica pallone. Si tratta di quel luogo del mondo dove uno dei più grandi calciatori di sempre ha indossato per quasi 600 volte la stessa maglia. Mi spiace, non posso farlo. Io una storia ce l’ho davvero”. Mi sarebbe piaciuto, sì, poi mi sono svegliato e ho visto Bremer passare un gagliardetto bianconero. Evviva il futuro!

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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