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Gli sportivi e le tasse

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Torna l'appuntamento con 'Loquor', la rubrica di Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“Quando la tassa viene,

ognuno si fa povero”.

Proverbio

“Nessuna imposta può essere applicata dal Re se non è stata approvata dal concilio del Regno”(“no scutage not aids hall be imposed on our Kingdom, unless by common counsel of our Kingdom), recita l’art.12 della “Magna Charta Libertatum” emanata il 15 giugno del 1215 da Giovanni “Senzaterra”, da allora questo principio(codificato nell’art.23 della nostra Costituzione) ha permesso dapprima la nascita dello “Stato Liberale” e poi di quello “Democratico Sociale”. Non si sta parlando, quindi, di banalità giuridiche buttate là per contingenti ragioni storiche, ma addirittura di qualcosa che diede il via, al grido di “no taxation without representation”, ad una delle guerre d’indipendenza più celebri, ovvero quella delle colonie americane del 1765 contro il trono d’Inghilterra. E’ probabilmente per questo che da sempre la questione fiscale, negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone in generale, è un qualcosa presa molto seriamente, facendo parte non solo della sfera penale(si rischia concretamente la galera per il mancato obbligo dei doveri verso il fisco, tanto che il famigerato Al Capone alla fine fu incastrato non per i suoi omicidi o per i suoi traffici criminali, ma per evasione fiscale), ma anche di quella pubblica dei salotti importanti, dove la cosa diventa una faccenda etica, retaggio anche della cultura “puritana”, e può portare all’emarginazione dalla vita sociale di coloro colti in flagrante sul mancato pagamento delle tasse.

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Le tasse, insomma, da quelle parti sono assai correlate con il concetto delle libertà politiche e civili raggiunte. Nel resto d’Europa, al contrario, si assiste ad uno scenario diametralmente opposto, e non suscita nessuna impressione o nessuno scandalo l’esistenza di una “terra franca” come il Principato di Monaco, diventato negli anni rifugio fiscale di sportivi di grande successo e molteplici guadagni. Ci sono Paesi, come l’Italia, dove nella cultura dell’opinione pubblica ciò è divenuta una cosa normale, non passibile di nessun discorso etico o morale, anzi, al contrario, se si prendono di mira i propri beniamini l’epiteto minore che può capitare è di essere definiti bacchettoni o moralisti. Capita nelle società senza memoria e completamente inconsapevoli sui perché e i per come dei diritti raggiunti. Una delle più diffuse fake news a circolare da decenni nella nostra pubblicistica, una fake news fatta artatamente circolare da chi gode di privilegi e posti d’onore in società, è quella degli italiani inclini a perdonare tutto tranne il successo, una storiella, assurta a luogo comune, inventata per restare impuniti dal giudizio etico/morale e farla comunque sempre franca, perché non c’è niente di più assolutorio nel dare degli “invidiosi” a chi ti critica. Un espediente drammaturgico/esistenziale geniale, bisogna ammetterlo. Chi è consapevole di essere circondato da un aurea da adorazione, come oggettivamente molti sportivi di successo sono, approfitta sovente a piene mani di questa scappatoia psico/sociale per coprire le proprie magagne o per reinventarsi impunemente una immagine pubblica. E’ dura a morire, per esempio, uno degli storytelling giudiziari più granitici, che vede il compianto Paolo Rossi condannato ingiustamente, nella versione impostasi nella vulgata popolare, nel 1980 dal Tribunale Federale del calcio per il famoso fattaccio precedente la partita Avellino Perugia(i giocatori coinvolti, tra cui Rossi, avrebbero, secondo l’accusa e la sentenza della Corte Federale, concordato un pareggio al fine di favorire i traffici di un giro di scommesse clandestine). L’ingiustizia della condanna, secondo questa vulgata portata avanti nel tempo anche da alcuni settori dei media, risiederebbe nel fatto che il giocatore toscano fu poi assolto dalla giustizia ordinaria, dimenticando, in questa ricostruzione, l’importante dettaglio che nel 1980 l’aggiustamento o la vendita di un risultato di una partita di calcio non era considerato, come oggi, un reato penale, per cui il procedimento della giustizia ordinaria non poteva concludersi che in un modo, ovvero con nessuna richiesta a carico dell’ex attaccante della Nazionale.

Nel 1982 Rossi si era trasformato in “Pablito”, eroe del successo sportivo mondiale più amato dagli italiani, quindi di nessun dubbio o critica poteva più essere oggetto. E’ il caso classico in cui un personaggio popolare passa dalla condizione di un “pari” di fronte alla legge e al giudizio degli uomini, all’impunità etico/morale, dove la magistratura e tutto un sistema giudiziario(in questo caso quello sportivo) divengono gli obiettivi da abbattere perché hanno mancato di rispettare il sentimento dell’idolatria. Le sentenze, che sono un “fatto” di un percorso scaturito da un patto sociale, ovviamente si rispettano solo quando empaticamente o ideologicamente non si è coinvolti, e la cosa ha molto da fare emotivamente con il concetto di “familismo amorale” coniato dal sociologo Edward Banfield nel 1958 riguardo il costume, la moralità e l’etica italiana. Ed ecco quindi tutti pronti non alla rassegnazione, ma “al fatto che non sussiste” quando si parla di sportivi lesti ad abbandonare le lande italiche per quel contesto francamente noioso del Principato di Monaco. Si trova tutto normale, nel senso proprio della “norma” che nella “Common Law” potrebbe diventare quasi giurisprudenza, anzi doveroso, quasi auspicabile(esageriamo), che il nostro sportivo del cuore possa portare in “Costa Azzurra” il suo bottino legittimamente guadagnato. La chiosa di ogni discorso, poi, è davvero memorabile: “tutti noi, potendo, faremmo così”. Secoli di cultura cristiana buttati letteralmente dalla finestra, oltre ad una manifesta totale assenza di pensiero ed ad una becera, e falsa, chiamata di correo. A questo punto il tribunale popolare manda assolti Matteo Berrettini, Lorenzo Musetti, Jannik Sinner, Filippo Volandri, Nicola Pietrangeli, Giancarlo Fisichella, Luca Badoer, Gianni Morbidelli, Michele Bartoli, solo per citare alcuni nomi italiani con dimora nel regno del Principe Alberto Grimaldi. Lo stesso tribunale popolare pronto, magari, ad imbufalirsi di fronte ad uno dei tanti stantii e ripetitivi programmi giornalistici dove il politico di turno aizza le folle connettendo l’evasione fiscale con il debito pubblico(commettendo, a volte in malafede a volte per pura ignoranza, un errore gigantesco mettendo in relazione due cose non relazionabili finanziariamente ed economicamente tra loro. Ma qui il discorso sarebbe complesso ed esula dal tema di questo articolo).

E’ fastidioso quando in una conversazione si fa presente la liceità di diversi sistemi di elusione fiscale, perché non si può tutto ridurre ad un discorso di tecnicismo giuridico, specie se si parla di rappresentanti mondiali dello sport. Gli sportivi possono prendere la residenza a Montecarlo? Possono farlo di certo, e infatti lo fanno senza problemi, ma allora almeno non li si additi come esempi, non gli si dedichino peana se non nell’ambito delle loro imprese sportive. Qualcuno potrebbe replicare come i premi dei tornei tennistici, ad esempio, siano tassati alla fonte, ignorando sorprendentemente il fattore ricavi da sponsor e da diritti di immagine vari che in uno sportivo di alto livello sono di gran lunga superiori a quelli dei premi. Nel 2023, ad esempio, Jannik Sinner ha guadagnato 5 milioni di euro dai tornei e 20 milioni di euro dagli sponsor, guadagni confluiti in società a responsabilità limitata aperte sempre nel Principato e che possono generare altri ricavi difficilmente quantificabili. Ripetendo ancora una volta come tutto sia lecito e legittimo, e ci mancherebbe altro, la questione nel caso degli sportivi è semplicemente etica e morale, nel caso della politica, invece, è di una responsabilità assai più grave. Negli Stati Uniti, sempre per i motivi storici di cui sopra, uno sportivo che decidesse di prendere residenza fiscale a Montecarlo perderebbe la cittadinanza statunitense, ed è una cosa, a pensarci bene e con onestà, logica e coerente.

Nei Paesi europei tale logica coerente non viene minimamente avvertita dalla politica, e i ricchi si sono adeguati di conseguenza. In conclusione lasciatemi dire che la difesa da parte di molta stampa di questi sportivi in fuga, evidentemente molto interessata ad essere “amica” e “complice”, è perfettamente in linea con il vuoto etico presente nel nostro Paese, un Paese a cui pare impossibile ricordare le parole di Paolo di Tarso nella “Lettera ai Romani”: “…non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo dovete pagare i tributi… rendete a ciascuno  ciò che gli è dovuto”. Vallo a spiegare.

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