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GPO e Aldo Agroppi e non serve dire altro

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Nuovo appuntamento con "Loquor", la rubrica su Toro News di Carmelo Pennisi: "GPO e Aldo Agroppi mancheranno ad ogni tifoso del Toro che si rispetti, e mancheranno al calcio raccontato..."
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“Sono a Kinshasa, non ho

Accredito ma ho Lucien”

Gianpaolo Ormezzano

 

Gianpaolo Ormezzano e Aldo Agroppi che se vanno a cavallo tra il 2024 e il 2025, sono l’ira funesta degli dei abbattutesi sul sangue Granata che aiuta a pompare il cuore del Toro, come se una forza arcana volesse continuare a sbattere contro scogli particolarmente impervi la storia di uno dei più iconici club calcistici del pianeta. Ormezzano e Agroppi erano tra gli ultimi sacerdoti del DNA del granatismo, e ogni volta che parlavano erano una via di mezzo tra la sezione Granata della “Biblioteca di Alessandria” e la riaffermazione di una teologia dell’anima di una squadra che rappresenta il tempo che resiste alle intemperie del tempo. “Vorrei al Toro qualsiasi cosa lo riavvicini a Superga e lo allontani dal calcio attuale”, ha detto GPO nell’ultima intervista concessa ad Andrea Calderoni, ed è il tentativo di un custode della fede, innamorato non solo del Toro ma anche del calcio, di far tornare a ragionare la sua gente per il giusto verso, di ricordare il motivo della sua esistenza, incastonata nel racconto di un calcio torinese dove la via non era quella della ricchezza e della modernità, ma bensì quella della testimonianza e dei valori contro i disvalori di una Juventus dirimpettaia non facile da sostenere. Ai due era molto chiara la questione del Grande Torino: era stata una fantastica eccezione della storia Granata e per tutto il Paese (non finirò mai di dirlo: il Toro è un patrimonio della Repubblica), una emersione del giusto e del vero mentre il solito potere oligarchico italiano era ancora sotto shock per aver aderito al fascismo e per il disastro della II Guerra Mondiale.

Il 4 maggio 1949 era stata la fine del lungo time out italiano, e tutto si apprestava a ritornare esattamente come prima. Amare il Grande Torino fu un respiro di autentica libertà, il sottrarsi finalmente ad un dominio ineluttabile della storia del nostro Paese. In GPO, che quell’aria di libertà l’aveva respirata, era rimasta l’anima del comunardo, indomabile nel ricordare costantemente la presenza di una volontà popolare sempre sul ciglio della rivolta contro il trono. L’aereo schiantatosi contro Superga era stata la sua “semaine sanglante”, l’addio ad una adolescenza fitta di sogni. Aldo Agroppi l’anima comunarda l’aveva ereditata con oltre 200 partite nel centrocampo del Toro, quella landa magica e sconosciuta ai più dove tutto accade e tutto finisce, e ne aveva abbracciato la metafisica senza reticenze: era nato per essere del Toro. “Il calcio di oggi mi fa schifo-dichiarò qualche tempo fa, guardo solo il Torino, perché ho giocato al “Filadelfia” e ogni volta sentivi di entrare in un tempio di dolore, di orgoglio, di speranza”, ed è in questa riflessione che Agroppi consegna l’essenza del racconto di un club amato non per le sue vittorie (invero assai poche), ma per essere un totem del calcio posto al centro di un mare in tempesta e mai con un cenno, anche inconscio, di resa. Tutti vorremo una amicizia così, solidità delle nostre fragilità, la certezza come nella vita non si sia destinati ad alzare bandiera bianca. A guardare bene le cose, senza la depressione che ci assedia fin dal primo vagito (andate a convincere un neonato che il mondo può essere molto più affascinante del ventre materno appena lasciato. Non vi crederà, e piangerà), è la resistenza a dare appagamento e contenuto alla vita, molto di più di una soddisfazione di un desiderio, o, peggio, del suo consumo.

“È sufficiente passare mezz’ora nella mia città per capire che tifare Juve è una specie di delitto contro l’aria, il sole, le nuvole, le fontanelle col torello che sputa acqua, le case, le cose, la gente, la storia”, scrive GPO e leggendo capisci, sì capisci, dove nasce la voglia di andarsi a cercare la difficoltà di tenere per il Toro. È aria pura, è protesta esistenziale, è gioia di vivere anche quando hai poco o niente, è il vero spirito del calcio. “La mia vita in Granata è stata meravigliosa” è una delle frasi celebri di Agroppi, e ti fa rivenire in mente uno dei più bei passaggi de “La Vita è Meravigliosa” di Frank Capra: “pane… che questa casa non conosca la fame. Sale… perché la vita abbia sempre sapore. E vino… la gioia e la prosperità regnino sempre”. Essere nell’anima del Toro vuol dire ogni volta assaporare il mattino del mondo, è malinconia e ottimismo che mai ti abbandoneranno, è rabbia che non divelte e non uccide ma che porta la felicità nel resistere ad ogni costo.

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Essere contro la forza bruta, incarnata dalla Juventus, è stata una parola d’ordine per i due nuovi Angeli Granata in cielo, un inno a guardare al sublime del calcio e non al vincere ad ogni costo, il virus maledetto iniettato dal postmoderno anche nelle vicende del gioco più seguito al mondo. La gente del nuovo  millennio arde di  desiderio di vittoria, vuole vincere per celebrare il “Trionfo” immaginando di entrare attraverso la “Porta Triumphalis” di un’antica Roma sempiterna presente nell’esistenzialismo. Se non vinci non sei niente, e quindi ti abbatti fino alla ferocia, fino ad essere disposto a dimenticare perché stai tifando per una squadra piuttosto che per un’altra. Dobbiamo recuperare il sapore delle nostre scelte di un tempo, non arrenderci all’adulterazione delle stesse. Allontanare la mistificazione è un imperativo categorico quando si parla di calcio, considerato come esso sia sintesi di vita per novanta minuti (più recupero) e racconto a seguire fino al racconto dei prossimi novanta minuti (più recupero). “Ho avuto due fortune nella vita: non essere nato donna afghana a Kabul e tifoso della Juventus a Torino”, e questo rimarcare di GPO riporta al vero significato del calcio, che è scelta radicale e non convenzionale. E ci richiama, da vero sacerdote Granata, al cuore della questione: non si tifa una squadra per il marketing effettuato sulle sue vittorie, esso è frutto di un destino al quale apparteniamo.

Quelli del Toro sono gli altri rispetto alla Juventus, e se essi pensano di intimorirli con quel loro rigurgito retorico del “fino alla fine”, ebbene sappiano che fino alla fine di quella fine il Toro sarà lì ad attenderlo. Non importa l’affanno umiliante di oggi, non importa se mancano di rispetto augurandogli Urbano Cairo per sempre: tutto “transita”, e il Toro sarà presente alla fine della corsa. L’idea del Toro non è nemica della Juventus (questo Gianni e Umberto Agnelli lo avevano compreso bene), è solo rivale nel porsi dei confronti della vita. GPO e Aldo Agroppi mancheranno ad ogni tifoso del Toro che si rispetti, e mancheranno al calcio raccontato; si deve fare in modo di non dimenticarli, ricordarli a coloro oggi bambini e che nel “Granata” in futuro vedranno un faro nei motivi del loro agire. Magari gli si faccia leggere la splendida chiosa di GPO, fatta nel suo celebre articolo pubblicato da “La Stampa” dedicato al match di Kinshasa del 1974 tra George Foreman e Cassius Clay: “…Lucien mi propone una costata di bue, controllo il prezzo, è il salario mensile di un congolese di città, se il poveraccio ha un lavoro. Dico a Thsimpummpu eccetra di scegliermi lui un piatto locale semplice, ed ecco perché nella mia vita ho mangiato anche cervello di scimmia”. Sapere che non si può andare spudoratamente sempre oltre, anche quando si può. Sapere che c’è sempre qualcuno da qualche parte che invoca giustizia, e se l’aspetta anche da te. Sapere che amare la vita e più importante che vincerla. E poi guardare in alto verso “Superga” ed avere la piacevole certezza come “Loro” abbiano giocato anche per te, persona del 2024. Questo è il Toro di GPO e Aldo Agroppi. Non serve altro. E ora lasciatemi andargli a dire arrivederci.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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