“Nella vita si diventa grandi nonostante”


Loquor
I giocatori cambiano la maglia. I tifosi non cambino il cuore
Massimo Gramellini
Non si abbandonano i sogni, non si smette di coltivare la speranza, non si determina il mettere da parte un gioco, solamente perché qualcuno ha deciso di lasciarti in solitudine nel giardino dei tuoi desideri. Non sono d’accordo con Marguerite Yourcenar quando scrive che “la memoria della maggior parte degli uomini è un cimitero abbandonato”, non accetto di intrufolarmi nel nichilismo a causa di giocatori vogliosi di cambiare maglia per far evolvere la loro ricca carriera altrove. La mia squadra è più grande della loro ambizione, la mia squadra continua a lasciare tracce nella storia mentre loro fanno in tutta fretta le loro valigie. Siamo tutti di passaggio e presto o tardi finiremo di respirare, ma la mia squadra sarà ancora lì, a colorare amore e a costruire destino. Non c’è sventura nell’amare una squadra di calcio, essa è capace di riempire le nostre giornate come poche cose al mondo, andando ad incrociarsi con la sofferenza e la gioia di tutti i giorni. Riempiamo gli stadi perché ancora ci crediamo, perché la storia delle generazioni che ci hanno preceduto in quei luoghi quasi di culto è capace di intercettare le frequenze della nostra anima e della nostra intelligenza. “Non dimenticate mai da dove siete partiti”, ha avuto occasione di dire Papa Francesco, rivolgendosi ai calciatori, nel corso di una udienza riservata al mondo del calcio, esortandoli a porsi in antitesi ad uno sport che li vorrebbe esclusivamente come aziende mai sazie nel voler continuare ad aumentare i fatturati. “La pelota del trapo”, era la palla di stracci con cui l’attuale Pontefice ha ricordato di giocare quando era bambino e “si facevano dei miracoli giocando nella piazzetta vicino casa”.
LEGGI ANCHE: La sensibilità dei tifosi juventini
Si fa presto, quando si diventa campioni, a dimenticare di essere stato parte della gente; si fa presto, quando si diventa campioni, a dimenticare di aver potuto tirare i primi calci ad un pallone grazie al fatto che il calcio è l’unico sport sociale esistente. Tutti vi possono giocare, esso fa parte della Costituzione della vita. E allora perché i campioni dimenticano ciò? Cosa ha spinto prima Victor Osimhen e poi Khivicha Kvaratskhelia a lasciare in fretta e furia il Napoli, con cui avevano scritto la storia? Davvero, da parte loro, non c’era spazio per “scrivere” altro nel capoluogo campano? “E’ molto cresciuta- dice sempre Papa Francesco, ricevendo la squadra del Celtic di Glasgow- l’impronta finanziaria del grande sport, fino a rischiare, a volte, di rendere il calcio interessante solo per motivi di interesse economico”, e le parole dette alla squadra scozzese non sono buttate lì a caso, sono un monito a tenere sempre presente le proprie origini, l’auspicio di “Fratello Wilfried”, il fondatore del club, di un sollievo per i più poveri tra i cattolici della città. Il calcio è origine proiettata in un divenire continuo, e bisognerebbe avere rispetto e onore per questa sua natura costitutiva. Il concetto della “giusta misura”, il “kata-metron” greco, ha attraversato per secoli la vita delle professioni, ottenendo per queste alcune forme di pudore, antidoto per non far traslare tutto nell’avidità senza controllo. C’era un momento in cui bisognava fermarsi, c’era il rispetto della parola data, c’era il tentativo di osservare il comune sentire. Il calcio nasce in questo contesto socio/valoriale, siamo al trionfo delle origini costituito dal mutuo soccorso attraverso lo sport. I calciatori sbocciano nell’alveo dell’amore incondizionato della gente per le squadre, e sono sviluppo culturale ed emotivo della società, e quindi ad essa dovrebbero in qualche modo rendere conto. Considerare il calcio semplicemente una professione o una azienda con cui si possono fare dei guadagni, vuol dire tradirlo nel modo più bieco e doloroso.
LEGGI ANCHE: GPO e Aldo Agroppi e non serve dire altro
Gigi Riva capì questo elementare concetto, ecco il motivo per cui si rifiutò di lasciare la Sardegna. Ma quello era il tempo sostanziato da gente capace di resistere al canto delle “sirene”, e di esempi di quel periodo di fedeltà alla maglia, concetto oggi quasi completamente sconosciuto, se ne potrebbero fare a iosa. Oggi il tempio non solo è stato profanato, ma gliene sono state cambiate le caratteristiche per esigenze di bilancio. Inutile girarci troppo attorno, il mercato calciatori è divenuto fonte di guadagno perpetuo per molte componenti del calcio, avide nel far lievitare i prezzi e nell’accaparrarsi così l’ingente liquidità immessa nel calcio europeo dagli arabi e dalle tv. Si è abolito il dogma della fedeltà alla maglia, e i calciatori, nonostante il sacrosanto giudizio a suo tempo a favore di Jean Marc Bosman, sono ritornati ad essere nella condizione di merce e di feticcio in cagione dei buoni andamenti dei bilanci. Sono i paradossi della storia, che a volte assurgono a commedia degli equivoci. La vera questione, forse, è la perdita del mito come riferimento di un amore, a causa della girandola di calciatori e allenatori che possono portare Antonio Conte a sedere prima sulla panchina dell’Inter e poi su quella del Napoli. “Non mi chiedete cose che non farò”, disse Antonio Conte all’inizio della sua avventura a Napoli, quasi imbarazzato con il microfono in mano mentre i tifosi napoletani cantavano il classico “chi non salta juventino è”. Siamo allo svilimento di ogni criterio di appartenenza e di rivalità calcistica, cosa che sta facendo perdere molto fascino al gioco più seguito al mondo. Conte è un fin troppo disinvolto mercenario, e va ad aggiungersi al paesaggio triste di allenatori di nazionali ridotti a macchietta quando si ritrovano a cantare un inno che non è il loro. Un Italiano accomodato sulla panchina inglese o ungherese è onestamente qualcosa da non potersi vedere, un “Rubicone” passato con tale stoltezza da rimanere attoniti oltre qualsiasi stupore. “Kvara” e Osimhen sono cresciuti in questo contesto senza lumi e senza ricordi del campetto sotto casa, dove la libera contrattazione ha come limite esclusivamente quello del non avere limiti. Il Napoli incasserà un notevole gruzzolo dalle loro cessioni, e i soldi giustificano tutto perché appaiono l’unico onore a cui non si può davvero rinunciare. Kvara si andrà quindi a seppellire nell’inutile campionato francese, che si gioca solo per permettere al Paris Saint Germain di vincere ogni volta la “Ligue 1”, in un torneo pensato per non permettere la caduta degli dei.
LEGGI ANCHE: Chi mette i soldi nel calcio?
Il mondo, si dice, oggi va così, e bisogna accettarlo per non apparire riottosi a mettersi al passo con i tempi. Un bel colore blu su gli utili netti della voce ricavi, e tutto il dolore per i bei andati oramai abbondantemente andati si lenisce o addirittura va via, come se quei bei tempi andati non fossero mai esistiti. Tutto rende immobili, un invito ad accettare il “panta rei” del denaro imposto dal neo liberismo, senza fiatare sulla reale consistenza del concreto che ci offre. Si continui a parlare di calcio ignorando il suo cambiamento o, al massimo, prenderne dolorosamente atto come un coro “euripideo” a cui rimane solo il compito di raccontare lo sgretolamento di un mondo contaminato dalla tracotanza dell’azione dello “hybris”. Raccontare, e niente di più. “Non fare nulla, ma che nulla non sia fatto”, viene in soccorso un’antica massima orientale, nel tentativo di smuovere da una pericolosa fase di stallo, di immobilità incomprensibile. I giocatori intenti a cambiare continuamente maglia, i presidenti che non volendosene andare violano il patto non scritto dei club di calcio come proprietà del popolo e non di un azionariato, la Fifa e l’Uefa autoproclamatesi garanti del gioco, i procuratori assurti a veri burattinai dietro tutte le vicende del calcio. Cosa può fare il tifoso di fronte a tale appropriazione indebita? Potrebbe, per esempio, dismettere i panni di spettatore assegnategli dalla postmodernità, e da quel momento ripartire alla conquista della sua vera identità, che non è quella del “consumatore”. Tutto il resto verrà da se, come una naturale conseguenza. Impegniamoci ad essere felici, tanto per l’infelicità non serve neanche che ci sia dia da fare.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
Disclaimer: gli opinionisti ospitati da Toro News esprimono il loro pensiero indipendentemente dalla linea editoriale seguita dalla Redazione del giornale online, il quale da sempre fa del pluralismo e della libera condivisione delle opinioni un proprio tratto distintivo
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il tuo commento verrà moderato a breve.
Puoi votare una sola volta un commento e non puoi votare i tuoi commenti.