“You’ll never
loquor
I tifosi granata a Firenze
Walk alone”
Inno del Liverpool
Si fanno tante conversazioni, finanche dalla finta aurea dotta, sul perché gli stadi siano semi vuoti, sullo spostamento della platea del tifo dalle gradinate di uno stadio al comodo salone di casa. Si punta il dito contro l’imborghesimento, vellutato di pigrizia, della gente italica, sovente più accucciata dietro uno smartphone o un computer invece che essere arsa dal desiderio di uscire per strada ad incontrare “l’altro” non più oggetto, pare, di una nostra curiosità se non in forma digitale. Non bisogna scomodare Zygmunt Bauman e la sua tesi “sull’attualità costretta a fare i conti con la propria condizione di realtà (e quindi di identità) continuamente manipolabile”, per capire il tunnel dell’inutilità in cui il nostro Paese pare essersi felicemente infilato. Anche perché viene quasi da sorridere (e lo dico con tutto il dovuto rispetto ad un grande maestro del pensiero come Bauman) quando il sociologo polacco parla della grande incertezza in cui è caduto l’uomo a causa della sua trasformazione indotta da produttore a mero consumatore. Nella liquefazione di ogni tipo di rapporto descritta da Bauman, non è presente, come sovente capita nelle grandi enunciazioni, l’analisi della realtà vera, quella che va oltre la fuffa impolverata in cui possono perdersi anche le menti più brillanti.
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Per parlare dei poveri, ad esempio, bisognerebbe esserci andati non a vivere insieme per qualche tempo, semplicemente per studiarli come topi di laboratorio, ma condividere con loro finanche le pieghe e i dettagli più profondi di una condizione, altrimenti si rischia di perdersi in equivoci. “Sequestrato” da alcuni amici “granata” e ”caricato” su una automobile allestita in direzione Firenze, “costretto” a vivere gli stilemi e l’orgasmo da tifoso in trasferta, “stordito” dal vivere una condizione non mia, “allucinato” dall’offerta “solo per oggi! Affrettati!” (biglietto quarti di finale di Coppa Italia a soli 8 euro. “Neanche una pizza costa così poco”, si affretta a raccontarmi la pubblicità comparata e un po’ subliminale degli amici granata), istintivamente mi verrebbe da mandare a quel paese il grande sociologo quando puntualizza che nella costruzione dei legami della “società liquida” “le energie non devono esser spese nella costruzione di legami ma all’attento calcolo su come costringere la relazione a dare senza prendere, a offrire senza chiedere, ad appagare senza opprimere”. “Cazzo!(e spero possiate perdonare l’uso istintivo del francese da parte dello scrivente).
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E’ evidente come Zygmunt Bauman non abbia mai frequentato i “tifosi da trasferta”, quelli che piuttosto saltano un pasto per mettersi da parte i soldi per non lasciare da sola la squadra, coloro che si vestono in modo da tale da rendersi indistinguibili dalla loro condizione sociale e con un’immancabile sciarpa con i colori del club a completare la “divisa” da gradinata. Puoi arrivare allo stadio con una Panda, con una Mercedes o con una Maserati; puoi essere quello che parcheggia l’automobile “green” davanti alla colonnina elettrica di ricarica o quello dallo “sbuffo” nero del tubo di scappamento di un diesel con gli iniettori sporchi e probabilmente fallati; puoi essere arrivato con un autobus perché nonostante la società postmoderna ti incoraggi a vivere in disparte, tu vuoi ancora provare l’ebbrezza della gita aziendale di un tempo o delle gite da Liceo. Tutto è diverso e tutto è uguale nel metamondo del “tifoso in trasferta”, ma quando l’autobus granata della squadra passa nel piazzale dove sei in attesa di entrare per gustare l’evento, il boato e gli applausi partono all’unisono e sono un messaggio a quel mondo estremamente volenteroso di voler radere al suolo quella “truppa” giunta a Firenze nella speranza di assistere ad un nuovo miracolo: “Noi siamo qui! E voi?”, è l’incipit emotivo lanciato ai giocatori, che non possono non aver notato quante forze dell’ordine circondano quell’evidente atto di ribellione alla postmodernità.
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I “tifosi da trasferta” sono lì e avvalorano la speranza di Pier Paolo Pasolini di una reazione di fronte ad una modernità che ci vorrebbe “non consenzienti, né dissenzienti”; essi, i “tifosi da trasferta”, sono la testimonianza, probabilmente inconsapevole, che resistere ad un cambiamento illogico e forzato non è essere “boomer” (come è facile, per la propaganda, prendere termini strutturati dalle scienze sociali e farli assurgere, imponendoli, a neologismi del disprezzo), è collocarsi da quella parte giusta della Storia che intravede il tracollo e vorrebbe impedirlo. Li ascolti, i “tifosi da trasferta”, e capisci come ancora siano estraniati dalla cessione improvvisa di un giocatore (più tardi, nel corso della partita, si capirà il reale valore della sua perdita) e le invettive contro il Presidente partono quasi in automatico. Sono invettive stanche, esauste dall’aver macinato chilometri e chilometri a inseguire l’amore per una maglia e la sua storia, una vicenda così incuneata con la storia del Paese che fa avere la certezza che se un pezzo di anima ancora è rimasta attaccata nella cultura italiana è perché loro sono lì, in quel piazzale riservato ai “tifosi ospiti”, a tenerla ben presente.
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I bambini (sì, ci sono anche loro. Provate a chiamarli “boomer”, se ancora la vergogna vi sostiene) ascoltano questi racconti stanchi e si ha la sensazione chiara come si stiano preparando a raccogliere il testimone, sono l’urlo di chi avverte i “padroni del vapore” di non illudersi troppo: il seme c’è ancora e presto maturerà, perché se c’è una cosa che l’uomo proprio non conosce è la parola resa. Sono pochi quei bambini? Sono fra quei pochi ad aver preferito la fatica della trasferta ad una ennesima giornata davanti all’EA Sports, il nuovo allucinogeno del post moderno? Forse sono pochi, è vero, ma ci sono e da essi si ricomincerà di nuovo. Questo pomeriggio forse capiranno come non sia Sasa Lukic il centro delle cose, ma sono quelle undici maglie granata entrate in campo a sfidare undici maglie viola. Verrebbe da leggergli un brano di una lettera scritta da un fante italiano della I Guerra Mondiale, alla vigilia dell’ennesima folle “corsa” lungo l’Altopiano di Asiago: “Cara madre, fra poco correrò nuovamente, sfidando la morte, sull’Altopiano freddo e oscuro. E lo farò in nome di quell’Italia e di un Re che dicono regni anche sulle nostre teste”. Mentre gli auguri una “buona corsa” sei giunto davanti ad un addetto della sicurezza dello stadio, che ti perquisisce con una invadenza tale manco fossi il cugino di Mattia Messina Denaro e ad uno fanno aprire il portafogli per verificare se il suono metallico avvertito al tatto siano monete o ricostruzioni di oggetti contundenti. Tutto viene condotto con una rozzezza e con un mal interpretato senso dell’autorità da lasciare sbigottiti a chi si trova in quel contesto per la prima volta. Ma i “tifosi da trasferta” accettano questo “giogo” con l’atteggiamento di chi vuole partecipare alla “vita” senza farsi scoraggiare da chi vuole incrinare ogni tipo di entusiasmo.
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Entri nel settore ospiti dello stadio è la prima cosa a farsi notare è il degrado della struttura, i sedili sporchi, le barriere di metallo incrostate e arrugginite. Visiti i bagni prima del fischio di inizio ed è quasi impossibile raccontare lo schifo e il totale stato di abbandono in cui versano: nemmeno delle bestie selvagge subirebbero un simile trattamento. E’ tutto talmente schifoso e surreale da far risultare qualcuno con indosso delle mascherine protagonista patetico di comicità involontaria. Il pensiero arriva come un fulmine: tutto è fatto per farti scappare e non ritornare più. Hai torto Bauman quando scrivi che tutti si venga trattati come consumatori, perché se fosse così si farebbe il possibile per far innamorare del prodotto da consumare. Il messaggio che arriva dal lerciume e dall’inciviltà di quei bagni è il chiaro tentativo di soffocare, attraverso la prostrazione, un momento di incontro collettivo in nome di un amore e di una storia. Li si tratta come delinquenti, li si soffoca con un autoritarismo stile gerarchetto fascista da fabbricato, li si umilia tenendoli in promiscuità con il tetano e ogni tipo di malattia, li si addomestica con comportamenti e norme messi in piedi in nome di una supposta “sicurezza” assurta a categoria teologica. Ma loro, i “tifosi da trasferta”, non sono tipi da demordere, non si scoraggiano nemmeno quando vedono la loro squadra perdere dopo una prova incolore. La sconfitta non li disorienta e, soprattutto, non li definirà mai. Ecco perché, nonostante una sconfitta che farebbe girare le balle a chiunque, inneggiano a Firenze e applaudono, ricambiati, i tifosi della Fiorentina. Un “gemellaggio” tra squadre ha lo stesso valore di una parola d’onore e loro, quelli trattati come bestie fino a quel momento, se ne fregano della “società liquida” di Bauman e quella parola la mantengono. E’ un momento speciale, prezioso, e senti di doverli ringraziare perché loro sono sempre stati presenti anche per te. Allora mentre li senti, per niente avviliti dalla sconfitta e dalla noncuranza di Urbano Cairo, darsi appuntamento per la prossima partita, tu avverti qualcosa di caldo che ti avvolge, come se i 3 gradi presenti fossero diventati improvvisamente 20. Può anche capitare, ve lo giuro, di ascoltare giungere dalle nuvole le parole di Valentino Mazzola: “giocare per voi non è stato vano”. Ti stringi nel tuo giubbotto, e sai quanto quel calore benefico sia simile a “quella nostalgia del Paradiso perduto” descritto da Benedetto XVI quando parla del calcio. Ancora non è perduto né quel calore né il Paradiso. Coraggio.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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