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Il benedetto malessere dei tifosi del Toro

Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 
Torna l'appuntamento con Loquor, la rubrica a cura di Carmelo Pennisi

“Solo il tuo vicino

                                                                                         è straniero”.

Zygmunt Bauman

Torino-Juventus non sarà mai una partita normale, quale che siano gli obiettivi e le forze reali in campo nel momento in cui quell’evento si gioca. O almeno così fino ad un certo punto della storia del calcio è stato. So bene come in Italia tutti si sentano avversari dei bianconeri, perché questi sono un simbolo con cui la famiglia italiana più nota nel mondo, gli Agnelli, hanno in qualche modo tenuto a ribadire il loro ruolo guida delle vicende italiane, e quindi il peso del loro potere. Ma alle altre squadre, per quanto vogliano ergersi a ruolo di novelli Annibale contro lo strapotere del neo potere romano in salsa bianconera, manca quella cosa fondamentale posseduta dalla squadra granata, quel bene inestinguibile e primario che da sempre gli regala sofferenza e gloria: alle altre manca avere radici a Torino. “Se siamo in esilio, vogliamo serbare ogni piccolo ricordo delle nostre radici”, scrive Paulo Coelho, nel tentativo di ricordare al lettore come da qualche parte provenga la sua storia, persa nella polvere del tempo trascorso, ma sempre pronta a rivenire su se setacciata con i giusti strumenti della memoria.

Avere le stesse radici della Juventus, per il Toro, ha voluto dire cercare una sua collocazione nel mondo con un solo unico vantaggio: aveva davanti a sé l’esempio di tutto ciò che non avrebbe mai voluto essere. Ogni giorno, in ogni piazza, in ogni via, in ogni anfratto di una delle più belle e significative città d’Italia: Torino. E prendere la linfa vitale dalle stesse radici, porta a conoscere meglio di chiunque quale sia la reale forza e cattiveria di Caino, e quanto sia importante combatterlo. Non importa se lui sia pronto sempre ad ucciderti, perché impotente di fronte al suo desiderio di annientamento di qualsiasi ostacolo gli si presenti davanti. Negli spazi della città piemontese, angusti o ampi che siano, Abele è costretto da Caino a interrogarsi sulla sua fragilità e sulle sue pene, è obbligato a trovare le giuste motivazioni per resistere. Perché condividere con Caino le stesse radici da inevitabilmente un segno di malessere, fa faticare a capire perché il mondo va sempre in un altro modo, e non come vorresti che andasse secondo gli input del tuo cuore. I giocatori che un tempo giungevano al Torino, ci mettevano poco a comprendere la reale consistenza di questo malessere, e presto imparavano a rispettarlo. Erano, i giocatori, professionisti anche nel tempo che fu. Paolo Pulici non aveva niente da invidiare ad un Suarez di oggi in quanto a professionismo, giocava per passione e giocava per soldi. Giusto così. Ma quel malessere  della condivisione delle radici con Caino lo onorava ogni volta che scendeva in campo nel “Derby delle Mole”,  mettendo il suo vigore e le sue gambe al servizio di un’idea, ovvero che non siamo nati per subire l’ineluttabile. Condividiamo le stesse radici, ma non potrai mai costringermi ad essere come te. “Io non sono te”, dice Stefano Torrisi al difensore bianconero, che invano tenta di impedirgli il tiro al volo nella porta di Dino Zoff, nel finale del destino dei tre minuti e quaranta secondi di gioco effettivo tra i più leggendari della storia del calcio. In quel tiro del Derby del 27 marzo del 1983, Torrisi spezza una catena e manifesta ai tifosi granata l’intenzione di tenergli compagnia in quel malessere da radici comuni con Caino.

Comprendere la diversità di una maglia rispetto ad un’altra dovrebbe essere una delle componenti principali della professionalità di un giocatore, nell’indossarne una piuttosto che un’altra cambiano le regole d’ingaggio emotivo. Ma forse quest’ultima considerazione è diventata roba di altri tempi, dove il calcio era ancora la manifestazione di un’idea e non di un consumo dettato dalle leggi del marketing e dalle conseguenze della “Sentenza Bosman”. Dal 1995, cioè da quando la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito essere un contratto e non un diritto di proprietà il rapporto tra calciatori e club, il “Filo d’Arianna” con cui i giocatori si orientano nel labirinto del sport più seguito al mondo, è stato messo nelle mani della potente categoria dei procuratori. E qui Abele ha cominciato davvero a vacillare di fronte a Caino, dato che il diritto della città, quindi delle radici, è stato sostituito con il diritto del mercato dei capitali. I giocatori progressivamente hanno smesso di avere come punto di riferimento una regola d’ingaggio emotiva, andando a sostituire all’appartenenza alla maglia, la filosofia di un contratto a seguire nel futuro. Non c’è una sofferenza e una diversità da onorare, non ci sono catene da spezzare in nome e per conto dei tifosi. Il contratto sempre più remunerativo ha, di fatto, abbattuto la necessità di avere persino un tetto.

I giocatori pro tempore del Toro abbandonano il “Derby della Mole” al suo destino, e lo retrocedono al rango di partita qualunque, magari da metterci un po’ di impegno in più, ma non tanto di più. Le ferree regole dei contratti di oggi non prevedono impegni emotivi sulle radici. Qualsiasi esse siano. E i tifosi del granata rimangono nella solitudine della loro malinconia. Non c’è più Paolino Pulici, non c’è più Eraldo Pecci (che continua ad amarli fin nel profondo del suo cuore), non c’è più Leo Junior a guidare la carica contro quel bianconero sempre più proiettato verso i destini siderali di un eventuale campionato europeo per club. Ma se non si è mai stati a contatto con loro, con i tifosi della squadra più enigmatica del mondo, non si può proprio capire perché, nonostante i calciatori contemporanei siano indifferenti al loro malessere, continuino a resistere ancora di più che i ragazzi della “Via Paal” di Budapest a difesa del loro “Grund”, del loro spazio vitale in mezzo alla speculazione edilizia della capitale magiara.

Non è essere ancorati ad un passato non più passibile di un ritorno, ma piuttosto la volontà di rimanere in vita perché il “mestiere” del tifoso del Toro è quello di ricordare a chiunque come ogni catena può essere spezzata. O, nella peggiore delle ipotesi, come anche da incatenati si possa conservare dignità e voglia di lottare. Non per una semplice questione di orgoglio, ma perché necessario e giusto. Le comuni radici cittadine con i bianconeri ti avvinghiano e ti soffocano? Non importa, la leggenda del granatismo racconta come anche da un terribile incidente aereo ci si possa risollevare e augurarsi giorni migliori. Nella mitologica serie televisiva “Radici”, andata in onda nel 1977, Kunta Kinte è un giovane guerriero africano  tradotto negli Stati Uniti e ridotto in schiavitù. Kunta Kinte non si arrende al sue destino, nemmeno quando lo costringono a sentirsi chiamare con un altro nome. Nemmeno quando, per punizione, gli tagliano mezzo piede per non farlo correre più. Fa una figlia e la chiama “Colei che rimane libera”(Kizzy, in lingua “mandinka”), e quando viene al mondo il suo primo pronipote  libero, a seguito dell’abolizione della schiavitu nel 1865, è esposto dal padre alla luce delle stelle. E’ il ringraziare la possibilità di aver resistito fino a quel punto, ovvero quello di spazzare via il malessere di nascere nello stesso posto dei vincenti.

Tra due settimane i giocatori del Torino torneranno ancora una volta nell’arena del Derby, e avranno l’occasione per giocare in nome e per conto di quei tifosi che, nonostante tutto, sono rimasti liberi. L’augurio è il prendere atto per cosa siano stati chiamati nel loro destino di giocatori di calcio, e che onorino il malessere di Abele. Dovranno lottare per il “Grund”, e per far sapere al mondo come ancora qualcuno sia disposto a sacrificarsi per ottenere uno spazio vitale. Quando Zygmunt Bauman ha detto che “oggi tutti sono al corrente e nessuno ha la più pallida idea”,  evidentemente  aveva qualche ragione, ma anche qualche torto. Finché i tifosi del Toro avranno il malessere delle radici comuni con Caino, la pallida idea sarà presente nel mondo. E forse anche di più di una pallida idea. Perché solo un malessere può indicare una via verso la guarigione.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.