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Il calcio al tempo del coronavirus

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Loquor / Torna l'appuntamento con la rubrica di Anthony Weatherill: "La pavidità, ossia la paura, è uno dei sentimenti che sembrano attraversare l’Italia in questi giorni dominati dal Covid-19"
Anthony Weatherill

“La fragilità è un dono.

La codardia è una colpa”.

Anonimo

“L’euro è un sistema monetario creato per una Germania circondata da pavidi”, dichiarò in un’intervista Paolo Savona, attuale presidente della Consob ed uno dei migliori economisti che l’Italia abbia mai avuto. La pavidità, ossia la paura, è uno dei sentimenti che sembrano attraversare l’Italia in questi giorni dominati dal Covid-19, ovvero il nuovo Coronavirus proveniente dalla Cina. Tutte le attività pubbliche, ricreative e non, del nord Italia sono state fermate e il BelPaese, agl’occhi del mondo, ha fatto in fretta ad assumere i contorni dell’untore dell’Europa. Perché cosa si può pensare di un posto dove le autorità politiche, rimaste inattive e in preda ad un inspiegabile ottimismo sul problema Coronavirus cinese, improvvisamente si siano fatte prendere dal panico e hanno cominciato a vietare quasi ogni tipo di socialità. Persino negli studi televisivi rimasti desolatamente vuoti di spettatori. Anche il campionato di calcio è stato fermato, e ora si parla di prossime partite da svolgersi a “porte chiuse” ai tifosi, che potranno consolarsi a vederle davanti ad un monitor televisivo. Ma non raccolti in pub, club o qualsiasi luogo di ritrovo, perché, appunto, la paura impedisce qualsiasi tentazione di condividere l’avvenimento sociale più condivisibile da tutti gli italiani: il calcio. Anche perché, in caso di un goal, che si farebbe? Ci si abbraccerebbe e ci si aliterebbe addosso? No, meglio restare a casa a godersi da soli la partita, e poco importa se il rimbombare del pallone colpito di un catino vuoto, lo stadio, diventato improvvisamente una gigantesca cassa di risonanza, doni all’evento il tocco del surreale.

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Perché la paura è qualcosa di difficile da contenere e misteriosa da sondare, in un mondo occidentale dove si persegue, in modo improvvido e a tratti patetico, l’idea primaria che il senso delle cose è legato al vivere ad ogni costo il più a lungo possibile, come un grottesco manifesto della ricerca illusoria dell’immortalità. E le paure, si sa, sono sempre opportunità per chi dalla paura pensa di cogliere nuovo guadagno in visibilità o in denaro. Sky ha proposto di irradiare in “chiaro” il prossimo Juventus-Inter di cui detiene i diritti pay, in evidente contrasto la “legge Melandri”, il complesso di norme che dal 2008 regola i diritti tv del calcio italiano. I manager del ramo italiano di Sky, di proprietà di Comcast, colosso mediatico statunitense con un utile netto 22 miliardi di dollari su un fatturato di 94 miliardi, hanno avanzato l’idea di trasmettere il “derby d’Italia” su “TV8”, il canale gratuito del gruppo, cercando di imporre l’idea di una loro particolare sensibilità verso il delicato momento attraversato degli italiani. “A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”, recita l’aforisma più noto di Giulio Andreotti, e questa proposta di vedere in “chiaro” Juventus-Inter è una vera tentazione all’indulgere al peccato della malizia. Cercando di dimenticare di essere appena entrati in tempo di “Quaresima”, provo per un attimo a perdermi nella morsa del peccato. Rai e Mediaset, non appena Sky ha diramato la sua “sensibile” intenzione, hanno immediatamente ricordato come le leggi in questo Paese non possano e non debbano essere aggirate, perché così vuole un “libero mercato” regolato da un “Antitrust” istituito a sua difesa. Volete voi della Lega A una Juventus-Inter “in chiaro”? Allora dovete mettere l’avvenimento “a gara”, così come prevede la legge, e anzi, forse sarebbe opportuno pensare, secondo Rai e Mediaset, di mettere “a gara” anche le prossime partite a porte chiuse che si dovessero decidere di trasmettere “in chiaro”. Un discorso, questo delle due più importanti reti generaliste italiane, per qualcuno dal sapore cinico, ma che dopo giorni di confusione dettata dalla paura, ha il pregio di ricordare a tutti noi come nemmeno un virus influenzale sconosciuto, presto trasformato in segno da fine del mondo, può mettere in discussione le regole di uno stato di diritto.

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Perché la paura prima genera la confusione, a cui poi fa seguire il caos. Che sia lo sport, e in particolar modo il calcio, ad aver fatto improvvisamente ricordare come il mondo non stia finendo ma solo attraversando una piccola crisi, è il riaffermare del valore sociale e trasversale dello sport stesso. Perché una delle possibilità donate dallo sport, è quella dell’occasione di riappropriarci in modo sano e reale di noi stessi. In un momento in cui c’è un evidente scontro istituzionale e di competenze tra poteri regionali e potere centrale, il calcio ricorda come forse si debba sempre prima riferirsi ad un “giudice a Berlino”, nell’occasione di dichiarazioni o decisioni operative. La legge, per essere creduta e rispettata, deve funzionare soprattutto quando una comunità entra in un momento di grave difficoltà. Ma ciò fa fatica a capirlo Gabriele Gravina, che dal suo scranno da presidente della Federcalcio proprio non ce l’ha fatta a non essere demagogo, dichiarando come “Sky interpreta al meglio lo spirito del momento, con questa decisione (di proporre Juventus-Inter in chiaro) condivisa e apprezzata”. Gravina parla poco, ma quando parla si ha sempre la sensazione di un’occasione persa per continuare a stare zitto. E, ovviamente, al festival della demagogia non poteva non partecipare Giovanni Malagò, definendo “una cosa positiva” la probabilità di dare la gara “in chiaro”. Il segno della fine di un mondo, in questo caso quello dell’Italia ricostruita nel dopoguerra, non può mai essere un’influenza, ma sicuramente può esserlo quello del declino di una classe dirigente povera di senso di responsabilità, ma ricca di ambizioni smodate ed avidità. E’ questa classe dirigente ad aver creato i presupposti della foto pubblicata in prima pagina dal “Wall Street Journal”, in cui si vedevano italiani affannarsi ad uscire con i carrelli pieni di ogni tipo di cibarie, protesi a correre subito verso le loro case, dove rinchiudersi come in un bunker e mangiare. Mass media e politici irresponsabili hanno dato l’idea di un clima di guerra e di un futuro prossimo di privazioni, e fa impressione vedere masse di persone giovani accaparrarsi fino all’ultimo pacco di zucchero o di pasta, quando notoriamente è tra le persone anziane che il Coronavirus miete le sue vittime. “Il Paese va preservato non solo dal contagio del Coronavirus, ma anche da quello della psicosi. All’estero stiamo diffondendo l’idea come l’Italia sia un posto dove non si può più venire”, ha dichiarato un lucido Piero Angela, raccomandando a tutti l’uso del buon senso e menzionando il dato statistico di un’influenza che ogni anno procura nel mondo fino a 600.000 decessi. In un video postato in rete Ilaria Capua, forse la virologa italiana più importante del mondo, ha provato con l’aiuto dell’economista Michele Boldrin, sovente in Cina per motivi accademici, a chiarire come ogni tipo di influenza non debba certo essere sottovalutata, ma che certo non ci si trovi davanti ad una prossima guerra nucleare. Certo non aiutano le mosse di molti Paesi di una Unione Europea palesemente retta solo da astrusi vincoli economici ed una moneta, che hanno pensato bene di ergere un muro contro l’Italia, cosa di cui, specie la Romania, dovrebbero provare un po’ di vergogna. Bene ha fatto, alla vigilia di Lione-Juventus, Maurizio Sarri a dichiarare, di fronte ad un paventato divieto ai tifosi bianconeri di seguire la loro squadra a Lione, come “il problema del virus sia un problema europeo e non solo italiano. I nostri tifosi hanno il diritto di essere qui”. Ma la paura diventata psicosi, favorisce in modo inverecondo il suo sfruttamento per fini non propriamente nobili. Si può bastonare l’Italia e metterla ancora più in ginocchio? Allora lo si faccia tranquillamente, come lo si farebbe come qualsiasi concorrente ai propri affari. Questa è l’Europa che sognavano Spinelli ed Adenauer? Suggerirei a Sky di smetterla di fare della demagogia a basso costo per ricavarne pubblicità ad altrettanto basso costo, e inviterei le autorità calcistiche a contribuire a ristabilire un clima di normalità. Non ci si trova di fronte ad una nuova Chernobyl post disastro centrale nucleare, ma solo di fronte ad un’epidemia influenzale. Aiutiamo il personale medico (gli unici in questi giorni a mantenere calma e razionalità) a svolgere con tranquillità il loro importantissimo lavoro, specie per il rispetto dovuto alle persone più deboli a rischio, ovvero gli anziani. Non può essere un’epidemia influenzale a porre il problema della visione delle partite in chiaro, non si permetta a Sky di farne un proprio spot temporaneo. Piuttosto la Lega A e la Federcalcio pensino ad un progetto a lungo termine di partite “in chiaro”, contribuendo a sancire il calcio come un diritto comunitario. Ma temo non faranno niente di tutto questo, e quando il Coronavirus passerà di questi giorni rimarrà solo il ricordo delle nostre assurde paure. Le file davanti ai supermercati dimostrano più la paura di non farcela, che il coraggio di provare a farcela. E’ la dimostrazione plastica di un Paese ormai pronto a soddisfare solo le proprie debolezze. L’Italia ha nel suo dna le risorse per reagire, e non solo al Coronavirus. Le recuperi in fretta. La storia del mondo aspetta il ritorno del suo genio, della sua laboriosità e, soprattutto, del suo magnifico ottimismo. Un ispirato Stefano Benni scrive: “c’è gente che dice che vuol lottare e poi confonde il fischio d’inizio della partita con quello dell’ultimo minuto, e va a casa”. È davvero a casa che vogliamo andare?

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

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