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MILAN, ITALY - MARCH 08: A general view during the Serie A match between FC Internazionale and Atalanta BC at Stadio Giuseppe Meazza on March 08, 2021 in Milan, Italy. (Photo by Claudio Villa - Inter/Inter via Getty Images)
“Ritorni di gioia, ritorni di
sofferenza. Verso l’origine”.
Marcello Veneziani
La nipotina di Sigmund Freud aveva paura del buio e dava sempre problemi alla madre nell’atto di addormentarsi, e allo spegnimento della luce ogni volta proponeva l’unico compromesso per lei accettabile: “spegni la luce ma, ti prego, continua a parlarmi”. L’ebreo Freud aveva molto studiato la “Torah”, il libro sacro ebraico, e sicuramente aveva scorso più volte il ricorrente “Dio disse, e cosi fu”, che è irruzione, per la prima volta, della parola nel rapporto tra la divinità e l’uomo. La parola si presenta e comincia a squarciare le tenebre del mondo, donandogli la luce necessaria per realizzare un racconto necessario alla conoscenza.
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La parola ogni giorno riafferma la necessità di prepararci all’esperienza, ci riempie dell’attesa in cui l’immaginazione lavora attraverso ad uno straordinario ventaglio di possibilità. Posizionandoci alla fermata di un autobus, in attesa di un mezzo che ci porterà a destinazione di un divenire in quel momento ignoto, possiamo facilmente rivivere il fremito di una tensione del “tutto è possibile e quindi impossibile”. Attendiamo e parliamo con noi stessi o con un altro avventore della fermata dell’autobus, e quel parlare via via illumina le nostre aspettative, ancorandole all’impellente necessità di farle diventare “cose” vissute.
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Il successo popolare del calcio, nel corso del ventesimo secolo, è figlio di un racconto perpetuo, “logos” cardine della tenace battaglia ogni giorno condotta contro la tentazione della deriva narcisistica di volersi considerare “unici e soli”, e di conseguenza padroni assoluti del mondo. Il calcio radicatosi intorno agli Oratori cristiani, alle Sinagoghe ebraiche, ai circoli ricreativi dei lavoratori, alle “camerate” universitarie, riesce nell’obiettivo quasi impossibile di porre la questione “dell’altro”, della sua ragione di esistere, della sua legittimità di poter portare “dei doni” a Dio. Tirare un calcio ad un pallone diventa presto un confrontarsi con il “diverso”, un parlarsi non necessariamente per unirsi o per volersi tutti bene, ma piuttosto per “riempire” di contenuti l’esistenza e tenendo viva la coscienza persino nell’oscurità assoluta.
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Il calcio, senza quasi farne rendere conto, nel corso di più di un secolo ha provato ad imporre una relazione con l’altro come conseguenza ineludibile del nostro stare al mondo. L’arcano dal sapore religioso dell’amore di una maglia erroneamente è stato a volte scambiato come una chiusura faziosa verso un’altra maglia, al contrario, invece, è sempre stato l’inizio della necessità di giustificare l’esistenza del “nemico” colpevole di parlare un’altra lingua sin dai tempi della deflagrazione verso terra della “Torre di Babele”. Si ha bisogno del “nemico” e si ha bisogno della sua diversità, e la “Dea Eupalla” ciò lo sa bene fin dentro le sue più recondite cuciture a rendere saldo e gonfio il cuoio. Il passato del calcio, e la sua memoria, sono il passato e la memoria del mondo, sono il tentativo di portare ordine nel caos auspicato da chi vuole oscurità, da chi vuole, una volta spenta la luce, la fine del racconto e il silenzio.
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Lo stato di grazia del calcio e sopravvissuto alle due guerre mondiali novecentesche e ad una “Shoah” feroce verso chi allo sport più seguito al mondo ha dato delle menti fervide, immaginifiche e tra le migliori (basti ricordare, tra le altre, le figure di Arpad Weisz e Erno Erbstein), ma sta soccombendo davanti alla scomparsa delle parole in voga in questo inizio del terzo millennio. Non c’è pensilina dove si attende l’autobus a poter ricucire lo strappo imposto dalla modernità digitale tra il calcio e la sua essenza naturale. In quella pensilina lo sguardo è rivolto verso lo smartphone, dove si sta svolgendo il gioco virtuale in voga in quel momento e consumato con voracità ancestrale. Chi viene dal secolo scorso avverte subito l’innaturalezza di quell’immagine, il rumore sordo e forte dell’assenza del “verbo”, ma scrolla le spalle e si volta dall’altra parte. Non è sua responsabilità, ritiene; e non lo è nemmeno con i suoi figli e con i suoi nipoti, lasciati andare alla deriva della loro corrente. La “Generazione Z” vuole i 15 minuti della sintesi della partita, che sono l’afasia del racconto del calcio novecentesco.
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Vuole questa afasia e in essa si sublima, non gli procura assolutamente nessun imbarazzo il calcio lesto a scivolare verso una forma passiva della fruizione alla stessa stregua di uno spettacolo teatrale o di un concerto rock. Lo sport dei suoi avi e della prossimità dei suoi affetti ha imboccato decisamente la via dello spettacolo, affidando al marketing il compito di inventare parole non più capaci di essere generate nella pensilina di un autobus. Il marketing è abile nel far scivolare l’esistenza il più velocemente possibile e a renderla così “liquida” da aver fatto rimuovere, senza nemmeno un rigurgito di proteste, l’eco proveniente dalla profondità del tempo della pazienza di Giobbe.
La pazienza è notoriamente una scelta, un allenamento dell’indole al pensiero, al racconto infaticabile anche nell’oscurità. Rimasti soli sulla “gradinata” del nostro salotto, incapaci di prendere la giacca e uscire alla ricerca di uno spazio dove tornare a “incontrare”, continuiamo a comportarci come fossimo i “ragazzi della Via Paal” a difendere il “Grund” contro la speculazione edilizia spietata nel ghermire lo spazio geometrico dei nostri giochi. Siamo degli impostori, è evidente; impostori e velleitari. La misura oramai sono i soldi e il tempo, non il grado di solitudine con cui questi vengono spesi. La modernità atea ha addormentato qualsiasi anelito al “porre la questione”, e probabilmente questa è una delle cause principali del nostro ritardo sulla necessità di ammodernare o costruire stadi nuovi. Perdendo il senso del racconto e del rito, il calcio non ha avuto più bisogno di pensarsi in luoghi di culto dove trovare o corroborare la fede. Descrivere la salita sul “Golgota” ha perso completamente significato di fronte all’esigenza di avere solo un sunto del “Calvario” e della “Crocifissione”, e il tramonto senza fine attualmente in corso non ha bisogno di altari impreziositi d’oro e dall’anima da “marmo di Carrara”.
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Gli stadi fanno pena e vanno bene così, tanto l’unica cosa a interessarci sono il mercato calciatori e il segno “+” sui risultati della nostra squadra del cuore. Ma sì, vanno pure bene gli stadi scalcinati e tanto criticati da Aleksander Ceferin, il Presidente UEFA sodale degli sceicchi qatarini, tanto nei famosi “15 minuti” riservati alla nostra sciagurata “Generazione Z” il lavoro di editing accurato si preoccuperà di far vedere non solo le fasi salienti di una partita, ma anche le prospettive più accattivanti sopravvissute alla logica fatiscente regnante sovrana negli stadi italiani. Mentre la partita nel salotto “televisizzato” continua a sviare, simulare, eccitare senza soluzione di continuità, nella stanza buia è rimasto solo il ricordo di un racconto appena tenuto in vita dall’ostinazione di chi non vuole rassegnarsi. Il calcio è il fanciullo con ancora davanti tutte le possibilità, è la ribellione al cinismo di Friedrich Engels secondo cui “ciò che esiste merita di perire”.
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Prendiamo per mano la “generazione Z” al momento abbandonata nel silenzio della sua stanza oscura, e cominciamo a raccontare, e ancora a raccontare. Passo dopo passo e senza arrenderci allo scoramento, si provi a convincere come la vita non sia possibile riassumerla in prestazioni migliori e aritmetici consuntivi. E’ tutto più di questo, ma davvero molto di più: “Dio disse, e così fu”.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.
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