columnist

Il calcio oltre la crisi

Anthony Weatherill
Le Rubriche - Loquor / Per uno strano arcano dai tratti apparentemente inspiegabili, ci si è dimenticati come il successo del calcio sia intrinsecamente legato alla passione

“Essere o non essere non è una

questione da compromesso”.

Golda Meir

Nella vicenda dei club di Serie A  non in regola, parrebbe, con i pagamenti degli stipendi ai giocatori, c’è il riassunto del dramma attuale del calcio italiano, incastonato in una realtà economica non più in grado di supportare le regole dorate di uno sport iper professionistico. Specchiandosi nelle luci e ombre riflesse dal calcio, gli occhi più attenti potrebbero vedere eloquenti prodromi della tempesta che sta per abbattersi sulla società italiana. Ma qualcuno, da tempo, ha deciso in maniera assai improvvida di nascondersi dietro un “andrà tutto bene”, mentre tutto sta andando esattamente nella direzione opposta, ovvero “nell’andrà tutto male”.

Mentre gente come il filosofo Massimo Cacciari, colpevolmente inascoltati, sta disperatamente ponendo l’accento, causa crisi economica sempre più violenta e feroce, su un disastro sociale ormai prossimo, che andrà a sostituirsi alla crisi sanitaria. C’è fatica a rendersi  conto della reale natura dell’implosione dei rapporti economici ormai in atto da tempo in occidente, che sta trovando nel covid la stazione finale del suo dramma. Nel resoconto finale della reazione decisa contro la pandemia, ossia chiudere quasi tutto dentro le abitazioni, si assisterà, probabilmente sgomenti, al definitivo cambiamento di tutte le leggi della domanda e dell’offerta, nonché ad una modificazione dal sapore copernicano della distribuzione del reddito e della sua creazione. E’ difficile, nel calcio, prevedere cosa sarà del concetto di “profitto” e di “sviluppo”, se i tifosi non ritorneranno a frequentare gli stadi e i campi di allenamento delle loro squadre del cuore. Perché nel cuore dello “sviluppo” del calcio si situa il vivere “live” la propria passione, modo più funzionale per trasmetterla alle giovani generazioni, giunti prossimi al rischio di vedere lo sport più bello del mondo come una delle tante varianti del mondo dei videogame.

Per uno strano arcano dai tratti apparentemente inspiegabili, ci si è dimenticati come il successo del calcio sia intrinsecamente legato alla passione e non ad un momento ludico di piacere, sovente ormai contemplato nella completa solitudine di una tv da salotto. Si continua ad assistere, negli ultimi vent’anni, ad un cambiamento antropologico sostanziale nel vivere i beni comuni, tra i quali anche la politica. Si è deciso di riservare tutto ad un “click” digitale, scambiandolo per una decisione di partecipazione attiva. In un contesto socio/culturale simile, era quasi scontato come gli interessi finanziari e del consumo potessero prendere il sopravvento. Nel calcio alla pressione dei tifosi si è sostituita quella dei fatturati orientati sempre più in alto, al fine di soddisfare le esigenze di un capitalismo che ha, nella sua perversione, il carattere famelico come stella polare. Non rendendosi conto, i tifosi, come ogni tipo di protesta via digitale, anche quella apparentemente più cruenta, abbia il solo effetto di alzare polvere offuscante più che sostanza, si è dato via libera agl’appetiti di scomporre e destrutturare ogni carattere originario delle società di calcio. Il primo effetto lo si è visto, verso la fine del secolo scorso, con l’avvento di nuovi proprietari del calcio, completamente scollati, culturalmente e socialmente, dal territorio del club appena acquisito. Quello è stato l’inizio della spersonalizzazione dell’identità del calcio, non più come fenomeno di un quartiere o di una tradizione, ma bensì come strumento di profitto di una realtà sempre più digitale. Lo stadio trasformato, dalla sua natura originaria di aggregante sociale frutto di una passione, in palcoscenico da teatro, contribuendo al sorprendente equivoco di confondere l’estetica con la bellezza, e consentendo la sua retrocessione da luogo d’amore e memoria a centro di consumo. Solo così un Cristiano Ronaldo, più che un giocatore, è potuto diventare una sorta di multinazionale, per sua natura senza confini e vincoli morali o etici.

Giunta la pandemia a bussare pesantemente sui parametri della nostra vita, ci è stato possibile coglierne la reale consistenza. E’ facile ora comprendere come ciò a mancare dei tifosi  è soprattutto il “contributo” in termini di abbonamenti allo stadio, privando di  una fonte non indifferente di introiti a tutto il baraccone del calcio professionistico trasformato da tempo in merce. Con la crisi degli introiti “live”(con tutto il suo indotto del mercato pubblicitario), La televisione ha assunto il compito di essere il reparto di terapia intensiva dello sport più amato dagli italiani, ma evidentemente da sola non basta. Se le società calcio inadempienti sul fronte stipendi non dovessero mettersi in regola, scatterebbe, come è noto, una conseguente penalità di punti, facendo irrompere nel campionato in corso un’ennesima anomalia sulla sua regolarità sportiva. Ma questo, al momento, sembrerebbe l’ultimo dei problemi perché anche nel calcio c’è, appunto, un problema di “sviluppo”. Luigi De Siervo, Amministratore Delegato della Lega Serie A, ha recentemente ricordato che il valore del danno economico arrecato alla principale lega calcistica italiana dalla pandemia, si attesti oltre i 500 milioni di euro. “Il sistema – ha detto De Siervo – è prossimo al collasso e non dovrebbe lasciare indifferenti. La Serie A è il motore dell’industria calcio, che da lavoro a centinaia di migliaia di persone. Non bisogna sottovalutare – ha continuato il dirigente della Lega A – le richieste d’aiuto che arrivano da più parti del nostro mondo, perché il calcio è al centro del tempo libero di tutti noi italiani e in questo senso va protetto”. Il ragionamento manageriale di De Siervo disegna uno scenario veritiero, ma nasconde un sottotesto importante e ineludibile, se si vuole capire dove si stanno cercando di indirizzare le cose in Italia, e non solo. Da tempo, infatti, nella Lega A si parla di un ingresso di fondi di investimento nella gestione del business, indicata come unica soluzione per garantire uno sviluppo radioso del calcio italiano. La questione a dover generare qualche timore, a mio parere, non è la prefigurazione di gestione sempre più privatistica delle società di calcio, ma di una corsa verso una gestione esclusivamente finanziaria delle stesse. Mi fa sovvenire un passaggio illuminante di uno scritto di Ettore Gotti Tedeschi, banchiere ed economista, dove si sottolinea come la “Parabola dei Talenti oggi vedrebbe un protagonista in più; colui il quale, ricevuto dal Signore il famoso talento, anziché investirlo produttivamente o persino sotterrarlo, lo investe in un prodotto finanziario strutturato ad alto rendimento e rischio”. Il paradosso di Gotti Tedeschi  fa capire come l’ingresso della finanza nelle nostre vite reca con sé pericoli sui quali non si può non riflettere, prima di affidare ad essa il paradigma dello sviluppo di una cosa a noi cara. Gli stati di crisi, come quello oggettivamente in corso, sono sempre forieri di porte improvvisamente aperte verso dei cambiamenti giudicati necessari in virtù dei uno stato di emergenza.

Ma tali cambiamenti sono sempre per il bene dell’uomo? La storia recente insegna, ahimè, una perdita di capacità di avere il bene dell’uomo al centro di essi(i cambiamenti). L’attenzione al problema della gestione del capitale e del suo accumulo pare essere l’unica questione a segnare quest’epoca, e si è messo da parte il concetto di fiducia, fondamento di ogni progetto pensato per il bene comune. Gli stipendi non pagati dalle società di calcio, non sono solo un mancato corrispondere ad un dovere, ma sono la spia di un bene comune in via di sottrazione alla gente per essere affidato ai mercanti del tempio. Vorrei si tenesse a mente come la crisi attuale del Manchester United non sia dovuta a mancanza di capitali(il fatturato dello United è uno dei più floridi del mondo),ma ad uno svuotamento progressivo di valori costruiti nel tempo da gente del calibro di Matt Busby e Alex Ferguson, che avevano individuato nel settore giovanile il forziere a cui attingere per mantenere identità e dignità di risultati sportivi per il club. Manchester United e Torino, pur nella evidente differenza dei loro attuali budget, non sono uniti solo da un tragico incidente aereo, ma anche da una progressiva perdita d’identità che smarrisce. I problemi sono o annunciati o improvvisi, e sono inviti costanti ad applicarci all’esercizio della risoluzione, per non accettare “la resa”come sconsolante opzione. “Beckam non è mai stato un problema finché non si è sposato”, ebbe a dire un giorno Alex Ferguson. Questa considerazione  dell’allenatore scozzese continua a ronzarmi nella testa. Non so perché. Sarà perché il matrimonio è sempre una promessa ignota di cambiamento?

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.