“Al posto degli uomini abbiamo sostituto i numeri”.
columnist
Il coraggio de L’Equipe
Federico Caffè
Vincent Duluc è forse il più importante narratore di calcio della Francia contemporanea, un tipo di giornalista che ha sempre avuto con lo sport un rapporto tra l’esistenziale e il simbiotico. Nel corso della sua lunga degenza in ospedale (28 giorni) a causa del Covid-19, Duluc giunge alla conclusione che più della paura di morire, è il non potersi muovere liberamente per l’Europa ed andare a vedere una partita della Premier League, piuttosto che il Tour de France, piuttosto che il Masters Golf, ad averlo particolarmente depresso, “perché, anche mettendola in prospettiva, non vedo la mia vita senza sport”.
Partendo da questo punto di vista, non mi ha quindi sorpreso il suo furioso attacco portato ad Andrea Agnelli e all’European Club Association (ECA) dalle colonne dell’Equipe. L’articolo è eloquente sin da titolo, “Deriva” è infatti la sintesi scelta dal giornalista transalpino come “cappello” per cominciare a demolire la figura del presidente della Juventus. “Uno di quelli che fanno più del male all’idea di universalità del calcio”, è l’affondo di Duluc, che ricorda come fu proprio il suo giornale ad aver pensato e favorito, nel 1955, la nascita della massima competizione calcistica europea per club.
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L’Equipe all’epoca definì “figlia dell’amore” la Coppa dei Campioni, perché nata per dare all’Europa un senso di ritrovata unità anche attraverso lo sport, dopo mezzo secolo di guerre particolarmente sanguinose e distruttive. Una competizione voluta per motivi di sport, perché bisognava trovare un metodo per stabilire chi fosse davvero la squadra continentale più forte di un determinato anno calcistico. Venendo la Champions da questa genesi, è comprensibile come chi ama profondamente lo sport non possa accettare il calcio “confiscato da una casta davanti alla quale si piegano le istituzioni per timore di uscire dai giochi e di non poterne più condividerne i benefici”. E qui Duluc mette il dito sulla pesantissima piaga incombente non solo sul calcio europeo, ma su tutto il sistema socio/economico del Vecchio Continente, ormai abbandonato ad un triste e subalterno destino dalla sua classe politica e istituzionale. Nell’ultimo “World Economic Forum” di Davos, Vladimir Putin ha messo sull’avviso se stesso e i “maggiorenti” della élite mondiale, di tenere sempre a mente come le “persone non sono un mezzo, sono un obiettivo”, affinché il mondo non continui il suo scivolamento nella distopia. Perché mentre Agnelli e soci continuano a prefigurare un futuro fantasmagorico campionato europeo per club spacciandolo per una felice utopia, ma solo per andare incontro alle esigenze delle nuove generazioni allevate a colpi di videogiochi (verrebbe quasi da ridere, ma ormai queste élite venute fuori nel nuovo millennio sono così: amano sparare sciocchezze con solennità da analisi colta), in realtà stanno coltivando una contro-utopia fattuale, tesa ad avere davanti un unico obiettivo: fare sempre più soldi e a qualsiasi costo.
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Il calcio europeo, uno dei veri motori mondiali di produzione di valori e modelli culturali, sta assecondando, per chi ha voglia e occhi per vedere, il nuovo assetto geopolitico voluto per quella che fu la sorgente di tutta la cultura occidentale: la cara vecchia Europa. Vendere la propria anima culturale al nuovo sol dell’avvenire proveniente dall’Oriente, deve essere apparsa davvero una buona idea a chi ha in sorte i destini dell’Occidente. La Cina protesa a vendere, nel suo mercato interno, 5 milioni di automobili a propulsione elettrica entro il 2025 (sono numeri davvero incredibili nel settore automobilistico), è un mercato diventato così attraente per i capitalisti lasciati dalla politica agire indisturbati nella loro “sindrome atavica da far west”, da essere diventato l’autentica ossessione di chi si arroga di progettare per tutti il futuro. Così Elon Musk, nel parlarci continuamente dei suoi sogni per portarci nello spazio (ah, come sono abili i ladri di sogni), si è piazzato a produrre le sue auto elettriche proprio in Cina, vendendole a caro prezzo ai benestanti eredi della “Rivoluzione Culturale” maoista.
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Fa quasi tenerezza Javier Tebas, presidente della Liga spagnola, quando sostiene l’irrealizzabilità della SuperLega e invita Andrea Agnelli a cercar di far crescere la Serie A. Fa tenerezza (ma forse è solo strategia quella di Tebas) perché al dirigente spagnolo pare sfuggire ciò che a Vincent Duluc appare abbastanza evidente: “l’Uefa è troppo debole o troppo ambigua per resistere, e ha abbandonato così la vocazione e la responsabilità nell’illusione di mantenere il suo potere. In realtà è stata già scavalcata e ha già perso”. E’ chiaro come per il momento Andrea Agnelli faccia finta di mirare esclusivamente ad una nuova Champions League, dove il 90% dei 20 club più ricchi sarebbero sempre qualificati, ma l’obiettivo finale resta sempre la creazione di un campionato unico europeo in stile USA, dove le squadre non sarebbero altro che franchigie al servizio di un business da vendere al sempre più ricco mercato dell’Oriente. Bisogna tener presente, in questo contesto, come al salario medio sempre crescente dell’operaio cinese, corrisponda la deflazione continua dell’operaio italiano o croato. Il paragone Oriente/Europa diventa drammatico, se si tiene conto del salario medio di un lavoratore giapponese di mille euro superiore a quello del lavoratore italiano. Considerando come tutti gli studi economici indichino il superamento del Pil nominale cinese su quello statunitense entro il 2030, si comprende bene i come e i perché di Agnelli e soci nel tentare di fare del calcio europeo un prodotto da consumo globale, a scapito della tradizione competitiva dello sport continentale.
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Se volessimo considerare la terminologia di Mario Draghi e dei Chicago Boys di Milton Friedman, sarà bene che alcuni presidenti di club nostrani non si facciano molte illusioni (ogni riferimento a Claudio Lotito e ad Aurelio De Laurentiis è decisamente voluto): a parte Juventus, Milan ed Inter il restante lotto dei club italiani, nel disegno di Agnelli e soci, sono semplicemente imprese “zombie”, ovvero destinate a ridimensionarsi drasticamente o a scomparire. E’ pura follia, o inguardabile ingenuità, quella di ritenere i seguaci del neo liberismo pensare alle squadre di calcio come attori di “social responsibility”. Il neo liberismo non ha come riferimento né i diritti dei lavoratori, né la regolamentazione del business, né l’attenzione di un incremento salariale della classe lavoratrice tanto cara ad Henry Ford. Il modello a cui si rivolge l’ECA attualmente presieduta da Agnelli, è quello della “distruzione creatrice”, ovvero la selezione darwiniana delle imprese operata da un mercato lasciato libero di “fare”, tanto applaudita nell’ultima riunione del G30, il think tank di consulenza su questioni di economia monetaria internazionale istituito dalla “Rockefeller Foundation” nel 1978. Il punto di arrivo della “SuperLega” non solo “negherebbe l’essenza, la cultura e la storia dello sport europeo”, ma attirerebbe su di sé quasi tutti i profitti generati dal movimento calcistico europeo.
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Inutile dire niente sul destino riservato a chi non apparterebbe agli eletti della SuperLega: si sarebbe di fronte all’apocalisse di uno sport come lo si è conosciuto e vissuto fino ad oggi. Ecco, dunque, in cosa consiste il cuore della deriva del calcio europeo temuta dal bravo e coraggioso Vincent Duluc, che chiosa l’articolo con un atto d’accusa memorabile, e degna del miglior giornalismo. “Sappiamo cosa sia fondamentalmente ingiusto e pericoloso per il calcio: che sia Andrea Agnelli a disegnare, insieme a qualche amico, il calcio europeo di domani”. L’Equipe schierato con tutto il suo prestigio e il suo peso editoriale a difesa dei diritti dello sport contro dei volgari Chicago Boys del calcio, non può che essere una buona notizia per i tifosi europei. C’è da augurarsi, sul tema, il risveglio della stampa nel suo complesso, prima del compimento dei piani dell’ECA . Mi sovviene una frase di Vincent Van Gogh: “Non bisogna giudicare il buon Dio da questo mondo, perché è uno schizzo che gli è venuto male”. Che dite, vogliamo proprio dare ragione al pittore olandese? Siamo davvero uno schizzo venuto male? Forse l’articolo coraggioso dell’Equipe racconta di uno spazio che ancora c’è per una bella pennellata. Si è di fronte al cambiamento irreversibile di un’Era, o si è al prodromo di una rivoluzione? Sarà interessante, anche se drammatico, scoprirlo.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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