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Il fratello di Bobby

Anthony Weatherill
Loquor / Torna la rubrica di Anthony Weatherill: “Anche nella tragedia Bobby aveva avuto modo di distinguersi: aveva salvato il più grande allenatore d’Inghilterra ed era stato messo a capo della ricostruzione di quello che sarebbe diventato...

Il tuo tifo mi rende forte, la tua

critica mi rende invincibile”.

Bobby Charlton

Ashington è un piccolo centro del Northumberland, che ha avuto in sorte di aver dato i natali a sole quattro personalità, e tutte nel mondo dello sport: Bobby e Jack Charlton, Jackie Milburn, Steve Harmison. Jack Charlton si è spento pochi giorni or sono laddove era venuto al mondo, in quel lembo di terra a nord est di una Contea che, per quanto piccola, ha visto passare alcuni importanti snodi della storia inglese. Dal cristianesimo fiorito in terra anglosassone grazie all’opera dei monaci del “Monastero di Lindisfarne” alla rivolta de “Il Sorgere del Nord” guidata da nobili cattolici che volevano mettere Maria Stuarda sul trono d’Inghilterra al posto di Elisabetta I. Jack è stato un personaggio rilevante della storia del calcio inglese, basti solo ricordare il suo essere titolare inamovibile del pacchetto difensivo dei “Tre Leoni” campioni del mondo nel 1966. La famiglia di Jack era quella classica di un padre minatore: perenne ristrettezza economica, orizzonte futuro nel ventre profondo di una miniera, grande ricorso alla fantasia per non deprimersi. E doveva essere proprio gravida di fantasia e di carattere Cissie Charlton, dedita a giocare a calcio ogni giorno con i suoi quattro figli, che oltre al pallone dividevano un unico lettone nella modesta casa di famiglia. Per non farsi mancare niente, Cissie finì per allenare anche la squadra della scuola locale, in barba a suo marito, mister Bob Charlton, per niente interessato al calcio e alle sue vicende.

Non deve meravigliare questa predilezione al gioco del calcio di Cissie Charlton, perché il suo cognome da nubile era Milburn, una famiglia che aveva dato giocatori al Leeds United, al Leicester, al Chesterfield, al Rochdale e soprattutto al Newcastle United. Un tempo, quando la società era un po’ più sana e meno egomaniaca, i figli della “working class” avevano impresso nell’animo e nella mente il senso della concretezza e dell’umiltà, e facevano fatica a considerare sogni realizzabili qualcosa di troppo grande ai loro occhi, come quello di giocare un giorno in “First Division” (antesignana della Premier League). Ecco perché l’adolescente Jack Charlton, nonostante fosse stato notato dal Leeds United, aveva preferito scendere in miniera con il padre. Erano davvero altri tempi, quelli, e uno stipendio medio di un calciatore non era così più alto di un lavoro qualsiasi e aveva il difetto, per ragioni anagrafiche, di avere una fine intorno ai trent’anni; troppo vecchi per inventarsi un nuovo lavoro e troppo giovani per avere una pensione. Il rischio di rimanere in mezzo al guado della vita in preda ad un possibile annegamento era, per quelle generazioni con il senso di responsabilità incorporato, un’idea troppo insensata per poter essere presa sul serio. Poi, forse, a Jack non doveva essere parsa proprio una buona idea giocare per il Leeds United, visto che era e rimarrà sempre tifoso del Newcastle per tutta la vita: a quindici anni certi amori si prendono molto sul serio. Ma il destino del prato verde di uno stadio lo chiamava, e dopo aver capito come il lavoro sottoterra non lo facesse sentire proprio a suo agio, decide che forse il calcio è un tentativo da potersi fare per costruirsi un futuro.

Lo attendono 630 partite con il Leeds United e 35 presenze con la nazionale inglese con vittoria della Coppa Rimet annessa. Roba da diventare gloria imperitura di Ashington e dintorni e avere un giorno magari una statua commemorativa a lui dedicata. Come quella dedicata a suo zio Jackie Milburn, secondo “cannoniere” di sempre del Newcastle United. Con ben 239 reti. “Che tutti gli uomini debbano essere fratelli è il sogno di chi non ha fratelli”, deve aver scritto in un momento particolarmente depresso Charles Chincholle, e forse anche Jack deve essere giunto alla stessa conclusione, quando sir Matt Busby, leggendario allenatore del Manchester United andò a scovare suo fratello Bobby nel corso di una sua partita con la rappresentativa scolastica dell’Est Northumberland. Sir Matt non peccava di decisionismo, e ci mise un secondo a capire che quel ragazzino gracile di quindici anni, alto quasi venti centimetri meno di suo fratello Jack, un giorno sarebbe diventato uno dei più grandi giocatori della storia del calcio inglese, colui che avrebbe alzato al cielo la prima Coppa dei Campioni vinta in quella parte di mondo. Sir Matt, ovviamente, lo mise subito sotto contratto. A Bobby Charlton sono stati dedicati centinaia di articoli, racconti e leggende di ogni tipo, che ne hanno fatto diventare una realtà iconica. Poi aver messo una certa lontananza tra lui e Ashington, probabilmente non avrà fatto che aumentare l’aurea da personaggio mitologico tra i residenti della cittadina dell’est del Northumberland. Forse avrà superato persino i racconti suggestivi sui monaci di Lindisfarne e la loro mitica produzione dei “Vangeli” tramandati per generazioni. Era Bobby ad aver tirato Matt Busby fuori dall’aereo schiantatosi sul fondo di una pista innevata di Monaco di Baviera in quel maledetto 6 febbraio 1958, poco prima che il “volo 609” della “British European Airways” prendesse fuoco portandosi via per sempre otto “Busby Babes”, otto magnifici giocatori.

Anche nella tragedia Bobby aveva avuto modo di distinguersi: aveva salvato il più grande allenatore d’Inghilterra ed era stato messo a capo della ricostruzione di quello che sarebbe diventato il grande Manchester United. Jack deve aver capito la situazione, e pur avendo tutte le giustificazioni del mondo per poter assumere le sembianze di “Caino”, prosegue sereno e con il sorriso la sua tranquilla vita al Leeds United. Al contrario di Bobby, non deve aver mai pensato neanche per un momento di lasciare la sua Ashington, perché deve averlo visto come un sacrificio inutile, dato che a diventare un mito ormai stava apprestandosi a diventare l’amato fratello con cui aveva diviso il letto e il sonno dell’infanzia. Non corre il rischio di essere un “Nemo Propheta in patria”, quindi tanto vale non mettere distanza tra sé e la sua gente. Ad esclusione di Franz Beckenbauer, non a caso detto il “Kaiser”, difficilmente un difensore, all’interno di un team vincente, riesce ad assurgere ad eroe del momento; ed ecco quindi che la vittoria dei bianchi d’Inghilterra del 1966 è soprattutto quella di Bobby Charlton e Nobby Stiles e se proprio nella fantasia collettiva deve entrare un difensore è il momento di Bobby Moore, ovvero colui che riceve dalle mani di Elisabetta II la “Coppa Rimet” in quella magica finale di Wembley. Due anni dopo Bobby si porta a casa la Coppa dei Campioni e per tutta l’opinione pubblica inglese diventa George Best il fratello di uno dei quattro figli di Cissie. Quel giorno a Jack deve essere passata ogni fantasia su una statua commemorativa nella sua città natia, e tranquillamente si avvia verso la fine della sua carriera di calciatore nel 1973. Jack proprio non ce la fa a togliersi il sorriso dal volto, sa di essere stato fino a quel momento un uomo fortunato. Ha schivato, grazie al calcio, l’oscurità della miniera ed è giunto a vedere la Regina da vicino. Ne ha di cose da raccontare ai familiari e agli amici diventati adulti estraendo carbone. Al diavolo il desiderio di diventare un mito, non vale la pena diventare “Caino” per esso. Comincia una tranquilla carriera di allenatore e soprattutto si dedica anima e corpo alla vera grande passione della sua vita: la pesca sportiva. Diventa talmente nota questa sua pratica, che nel 1985 presterà la sua immagine a un videogioco: il “Jack Charlton Match Fishing”.

Quando tutto sembra scivolare verso una tranquilla vita da ex calciatore e circondato dall’affetto della sua Ashington, la vita decide di regalargli due soddisfazioni inimmaginabili. La prima è quella di allenare per un anno il Newcastle United, sua squadra del cuore, e poi quello di essere chiamato alla guida tecnica della nazionale della Repubblica d’Irlanda. Siamo nella seconda metà degli anni ottanta e il mondo di Jack, quello dei minatori, comincia ad essere stravolto dall’azione politica di Margaret Tatcher, che li mette fuori dalla storia. Jack porta la nazionale irlandese al suo più importante risultato sportivo, regalando a quell’isola rimasta tenacemente cattolica il primo quarto di finale di un mondiale. Questo avvenimento lo fa diventare l’inglese più amato dalla gente d’Irlanda e con una statua di bronzo nell’aeroporto di Cork, che lo raffigura seduto su una panchina, in tenuta da pesca e con un salmone in mano. Quella statua rappresenta che la gente, finalmente, lo ha veramente “visto”. Ora Jack è in compagnia dei suoi quattro zii calciatori e di sua madre Cissie, con il padre Bob seduto in un angolo a guardarli attendere con un pallone in mano. Un giorno, spero il più tardi possibile, Bobby li raggiungerà e giocheranno la loro eterna partita. Jack non potrà, nell’organizzarla, dare nessuna disposizione agli zii e men che mai a Cissie. Allora penserà di dire qualcosa a Bobby, ma si fermerà un attimo prima di poter dire qualsiasi parola. Bobby è Bobby Charlton e lo spirito di Caino non entrerà mai in quel luogo. Quello è il Paradiso. E se ogni tanto, in qualche splendida mattina di sole, vi parrà di vedere da una nuvola scendere il filo di una lenza, non preoccupatevi: è Jack a pesca dei nostri sogni.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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