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Il gioco è nostro

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Loquor / Torna l’appuntamento con la rubrica di Anthony Weatherill: “Essere stato un uomo significa aver dovuto combattere”
Anthony Weatherill

“Essere stato un uomo significa

aver dovuto combattere”.

Goethe

Sono giorni in cui si è assistito allo stravolgimento della quotidianità dello sport mondiale. Campionati di ogni ordine e grado interrotti, Europei di calcio e Olimpiadi rinviate. Le tristi esigenze del Covid-19 hanno richiesto un tributo pesante, inimmaginabile solo a pensarlo qualche mese fa. Non so che genere d’Italia ci si ritroverà tra le mani alla fine di questo periodo di sospensione della vita, ma è sicuramente ipotizzabile come molto ci sarà da ricostruire. Forse è giunto il momento di cominciare a pensare con cosa e come si potrà ripartire quando il governo sancirà la ripresa di tutte le attività, avendo cura di pensare sin da ora che tutto sarà estraniante per la gente. Perché sarà come uscire da un lungo periodo di detenzione abbastanza duro, e senza avere la certezza se il domani vedrà scomparire il terribile morbo venuto dall’oriente. Bisogna ragionare sul fatto che, se non si trova un vaccino, con l’avvento delle prossime temperature fredde si ricomincerà con le infezioni da Covid-19 e, a quel punto, le autorità non potranno che interrompere nuovamente ogni tipo di attività.

Se si restringe il focus solo sul calcio, alcune banali domande a questo punto non possono non prendere largo nella mente di un tifoso: vale la pena fare un abbonamento allo stadio, se poi il campionato verrà nuovamente interrotto? E’ conveniente prendersi un impegno economico mensile con il pacchetto di SkyCalcio? E le vacanze tarate e organizzate al seguito del ritiro estivo della propria squadra del cuore? C’è una filiera di interessi e di vite dietro queste sole tre domande (ma altre domande ancora si potrebbero porre), da far tremare i polsi. Chi gestisce lo sport non deve pensare solo all’aspetto del gioco, ma anche a quanta vita economica ha generato nel tempo quest’immensa macchina che si fatica a vederla solo come un gioco. Quante famiglie dipendono economicamente da essa? Difficile stabilirlo con esattezza, perché è davvero difficile individuare tutto l’indotto generato dal calcio. Ma si sa come si stia parlando di tanto denaro. L’Italia può permetterselo di perderlo? Sinceramente, temo di no. Di contro questo è il momento in cui bisogna stare molto attenti, perché è proprio nei momenti di crisi e confusione che i poteri forti possono decidere dei pericolosi colpi di mano, approfittando proprio della debolezza di un intero sistema. In questa fase storica la maggior parte della gente è debole e impaurita, e potrebbe essere estremamente facile farle accettare qualsiasi cosa. Già si paventa una riforma dei campionati, ritornando all’antico concetto di meno squadre, più forti, e meno partite, ma più interessanti perché più competitive. Qualcuno potrebbe pensare come questo sia un logico salto verso il futuro, senza rendersi conto, invece, che si assisterebbe ad un disastroso passo del gambero verso un indietro remoto datato fine ottocento vittoriano.

https://www.toronews.net/columnist/loquor/cosa-ci-sara-dopo-il-covid-19/

In questi giorni Netflix ha messo in onda un’interessante serie tv (“The English Game”), che tratta le vicende degli albori della “Football Association Challenge Cup”, la famosa competizione oggi nota in tutto il mondo come “FA Cup”. Le storie di questo “drama” televisivo si dipanano attraverso due edizioni della competizione calcistica inglese più amata, mettendo in scena un’Inghilterra di fine ottocento vogliosa, da parte della sua borghesia industriale e della sua classe operaia, di partecipare da protagonista ad ogni aspetto della vita inglese, fino a quel momento di esclusivo appannaggio della nobiltà. La quale è prigioniera dell’idea di aver pensato e messo in piedi, lei e solo lei, tutto ciò che ha reso grande nel mondo il potere e il nome dell’Isola. La nobiltà inglese è convinta di essere la sola a poter continuare ad avere il diritto di stabilire cosa sia bene e cosa sia male per il destino dell’Inghilterra. Calcio compreso. Succede così quando mal si interpreta il grande privilegio di aver avuto dalla sorte la possibilità di nascere nella parte fortunata di un Paese. Ma il calcio ha in sé qualcosa di misterioso, qualcosa che racconta come tutti siamo nati realmente liberi e uguali non di fronte ad un ipotetico re, ma di fronte alla vita. Il calcio ci ricorda che la vita è nostra. In quei novanta minuti, in quel rettangolo di gioco, la gente spesso ha potuto vedere la propria storia, la propria felicità e finanche la propria possibilità di riscatto. Ecco perché, in una sequenza emozionante di “The English Game”, degli operai, ai quali è appena stato decurtato il salario del 10%, si mettono in fila per dare il loro contributo economico per finanziare la trasferta a Londra per il quarto di finale della Fa Cup della loro squadra del cuore, la squadra della fabbrica che gli ha appena diminuito la paga. Vanno in soccorso del proprietario della fabbrica, nonché proprietario della squadra, al quale le banche hanno chiuso temporaneamente i rubinetti. Ma loro, gli operai, non possono accettare il pensiero di non sfidare gli “Old Etonians Football Club”, squadra composta da ex studenti del prestigioso “Eton College”, il luogo storico dove ogni potere inglese si comincia a formare. Quando qualcuno sostiene il calcio essere solo un gioco mi vien da sorridere, perché, nel tentativo di voler dimostrare all’uditorio come lui abbia ben chiare quali siano le priorità della vita, finisce solo per dimostrare come della vita abbia capito ben poco. Quella sequenza di “The English Game” sta lì a dimostrarlo. Ben lo comprende uno dei caratteri principali della serie, Lord Kinnaird (che sarà per anni presidente della “Football Association”), che di fronte alle rimostranze dei nobili per niente inclini a voler concedere modifiche ai regolamenti della “Fa Cup” richieste dalle squadre operaie, chiosa in modo deciso: “E’ vero, le regole di questo gioco le abbiamo fatte noi nobili. Ma il gioco non è il nostro”.

Ecco, forse la questione sta proprio in questa considerazione. Dobbiamo ricordare, in questi tristi giorni del Covid-19, come nessuno sia proprietario delle nostre vite, come nessuno possa liberamente disporre di tutto ciò che è stato costruito nel tempo e dai sacrifici di generazioni di persone. Ci sarà da ricostruire al rientro nelle nostre attività lavorative, perché molto è andato distrutto a causa di questo blocco di tutta l’attività economica nazionale. Ma la nazione non è solo della classe dirigente, che in nessun modo si potrà arrogare il diritto di decidere come il Paese andrà ricostituito. Nessuno provi, approfittando delle macerie e del suo potere, a pensare di ricostruire i beni comuni secondo la sua personale visione del mondo. “La Champions League vale 1,5 miliardi di diritti tv contro i 7 miliardi della NFL, nonostante le ricerche di mercato ci dicano che su due miliardi di tifosi sportivi nel mondo ben 1,6 sono tifosi di calcio e soltanto centocinquanta milioni di football americano. Questo deve far riflettere sul potenziale inespresso con i format attuali del calcio”. Tale disamina fu fatta da Andrea Agnelli nel gennaio 2016, di fronte ad un’estasiata platea di studenti dell’Università “Bocconi”, e definisce al solito l’orizzonte di chi comanda, ovvero la ricerca spasmodica del profitto. Solo del profitto. La questione sportiva? Non è mai in agenda per questi soggetti. Il profitto è importante, perché come si è detto le conseguenze economiche di questo gioco hanno consentito una vita dignitosa a molte famiglie, ma non bisognerebbe mai dimenticare come questo profitto sia frutto della passione dei tifosi, unici detentori dei destini del calcio. Ci vorrà del tempo perché si torni alla normalità, ma non si confondano le necessità dell’emergenza con l’accaparramento illegittimo di spazi di potere. Se il calcio dovrà essere riformato nelle sue strutture agonistiche, dovrà essere fatto con un necessario dibattito pubblico, e che i grandi giornali, al solito, non provino ad essere al servizio esclusivo dei soliti interessi costituiti. Il dopo verrà, il domani verrà: facciamo in modo di non farci trovare impreparati. “La vita è, di fatto, una lotta. Su questo pessimisti e ottimisti si trovano d’accordo”, ebbe a scrivere Henry James ammonendo a non abbassare mai la guardia, nemmeno davanti ad un sole radioso. Si sia pronti a partecipare ai cambiamenti del mondo, quindi, e non si permetta a nessuno di approfittare della nostra momentanea debolezza per relegarci ai margini della vita. Il gioco è di tutti: non dimentichiamolo mai. In bocca al lupo.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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