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Il giornalismo sportivo

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Nuovo appuntamento con "Loquor", la rubrica su Toro News di Carmelo Pennisi: "Può anche succedere che il giornalista provi ad affondare, ad andare in profondità, ma è proprio quello il momento in cui sente il dolore del graffio del chiodo..."
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“Questo gioco è emblematico

del resto”

Vladimiro Caminiti (“Camin”)

Vladimiro Caminiti, che è stato senza dubbio uno dei migliori cantori dello sport italiano, aveva visto con rabbia e disincanto la trasformazione del giornalismo nostrano. Ma in lui rimaneva l’incanto e l’ingenuità del poeta prestato alla cronaca sportiva, tanto da farsi una domanda quasi surreale, o se volete retorica: “Cosa impedisce a un cronista di scrivere pane al pane e vino al vino, di dire sempre tutto quello che pensa”? La retorica apparente di “Camin” non deve fuorviare sull’intelligenza del personaggio, egli sapeva fin troppo bene, perché appunto ne stava vedendo la mutazione, i guai in cui si stava infilando il giornalismo italiano, sempre più ostaggio di sentimenti e interessi di bassa levatura. Lo sport nell’Italia postmoderna viene vissuto, dalla razza padrona, come una via di mezzo tra una cartina illustrata e le piacevolezze di una qualunque “club house” da circolo esclusivo. Non è più cronaca di un evento che la prosa letteraria di un Gianni Brera o di un Gianni Clerici facevano diventare mito e “attimo che conta” per l’anima nonché per la memoria, è divenuta piuttosto occasione mondana di dissolutezza da discoteca degli anni 80, dove il Tony Manero di “Saturday Night Fever” consumava vita fragile e psichedelica sulle note di “You Should Be Dancing” dei Bee Gees. Nel terzo millennio ti svegli la mattina, e non appena accendi radio o la tv uno dei pensieri più ricorrenti, ripetuto come un mantra congeniato da Gustave Le Bon o Edward Bernays, è quello del “tutto cambia e tu lo devi accettare”.

Non è il cambiamento il problema, ma l’acritico registro con cui te lo vorrebbero far vivere. Tutto si diluisce nell’indifferenza, nel padrone che è diventato anche più cattivo di quello descritto da Emile Zola in “Germinal”, nel grado di assuefazione prostrata prodotto dal “tengo famiglia” che tutti abbiamo. “Camin” non si tira indietro nel valutare tutto questo, siamo all’inizio degli anni 90 e del ritorno della modalità da “padrone delle ferriere”, e il suo j’accuse è di quelli che non si dimenticano: “… i vizi degli uomini, le mode, la corruzione dilagante, per cui il giornalista è quel desso che chiede permesso, si avvoltola nei dubbi, ciò che è nero diventa grigio, ciò che è rosso sfuma in un colore neutro, il cinque diventa sei, nessuno è colpevole, sono tutti innocenti. Invece siamo tutti colpevoli”. Gli anni 90 sono il crocevia di ogni maledizione abbattutesi sullo sport moderno, con Primo Nebiolo che trasforma l’atletica mondiale in un mercimonio dove è impossibile individuare una fine. Il giornalismo registrava la cronaca, e invece di dubitare esaltava. “Camin” lo aveva capito, e si rammaricava della figura del giornalista costretto ad essere “segugio del niente”. Nebiolo era un “satrapo” amico di altri “satrapi”, e basta leggere gli articoli del suo tempo per capire come la sua sfrontatezza disinvolta fosse ammirata da una stampa incerta del suo ruolo. Capitava di leggere cose così: “… una vita(quella di Nebiolo) percorsa tumultuosamente, sempre con carta d’imbarco- in top class, naturalmente- per ogni destinazione dove spettacolo-denaro-potere-successo-udience erano una parola sola, senza trattini. Aggiungere anche l’amore”. C’è un momento in cui tutto diventa vizio e truculenta da “ultimi giorni di Pompei”, quell’attimo in cui la decenza smette di avere ogni palpito, e non si ha nessuna remora di mettere insieme concetti totalmente lontani e asimmetrici tra loro. Così il giornalismo dei “coccodrilli” del giorno dopo è costretto a parlare bene, fino all’agiografico spudorato, anche di chi si dovrebbe almeno dubitare un attimo. Nemmeno la morte “livella” i “satrapi” con la gente normale, e i giornalisti del postmoderno sono costretti, in nome di un rispetto davvero incomprensibile del lutto, a dover gettare del miele su qualcosa di abbastanza amaro. Ridotto il giornalista ad un equilibrista impaurito o nella quiete della sua corruzione, il “satrapo” assapora la vittoria ottenuta vivendo vari gradi di impunità.

Ma lo sport, specie il calcio, ha dei suoi antidoti, ed è sempre “Camin” a ricordare come “il calcio sia il resoconto della vita”. “Camin” era uno juventino d’adozione, però rintraccia nel “Grande Torino” l’inizio della vera passione, spesso accanita, italiana per il calcio, e questo non deve sorprendere. I veri giornalisti sanno leggere nella realtà persino la profezia contenuta in essa. Il “Grande Torino” rialza un Paese ferito e distrutto, e gli indica la via della ricostruzione e del successo. Il giornalismo accompagna questa rinascita; la tv è ancora un luogo troppo piccolo per esprimere una cultura popolare stratificata, e internet si trova in un futuro troppo lontano. I giornalisti diventano quindi i rabdomanti della ricerca dell’orientamento, è il momento in cui raggiungono sul serio l’aurea da vero contropotere. Così come dovrebbe sempre essere. “… confido-dice Gianni Brera- che almeno si apprezzi il mio scrupolo, la mia fedeltà ad un mestiere e a uno sport che ho smesso praticare da tempo ma che sempre mi ha fatto e mi fa delirare”, ed è questa fedeltà che i giornalisti sportivi continuano a ricercare, pur nelle difficoltà di un mestiere che sta cambiando in modo vorticoso, forse ghermito da lontano da una Intelligenza Artificiale che pare stia svolazzando, come un malaugurato becchino, su tutti i mestieri di natura intellettuale. Ci pensa Giannola Nonnino, della famiglia dei noti distillatori, a ricordare il vero risvolto del talento di Gioan Brera fu Carlo: “io leggevo Gianni Brera perché non ti raccontava la partita, lui ti trasformava la partita in un evento culturale”. Ed è facile a questo punto ricordare il giornalista lombardo, intento in modo ossessivo a cercare una traduzione degna e non disonorevole alla parla “dribbling”. “Sai, in fondo dribbling vuol dire ingannare, e a me non piace associarlo al calcio, che amo”.

Fedeltà e amore ritornavano sovente nei pensieri dei giornalisti sportivi di una volta; narravano avvenimenti e gesta e con le loro parole, conturbate da forti sentimenti, li consegnavano al mito. Non avevano paura di osare, di tracimare nel paradosso iperbolico, non c’era un direttore ad implorarti un pezzo breve per collocarlo nella visione urlata e sintetica di uno smartphone. Tutto oggi deve essere veloce per far parlare, non per far pensare. Siamo arrivati al punto che se tu scrivi “Juve merda”, hai più visualizzazioni di un ragionamento più articolato e ricco di senso in cui provi a spiegare perché la “Juve è merda”. Brera e “Camin” non avevano remore nel fare ritratti anche scomodi dei campioni, si era di fronte ad un calcio privo di una cosa lucrosa come i “diritti d’immagine”. Oggi i presidenti, con la protervia derivata dall’esclusiva che ha ucciso il diritto di cronaca, possono privarti del verbo di un giocatore finché a loro aggrada. Un contratto ben remunerato gli ha concesso tutto del giocatore, superando con agilità la “Sentenza Bosman” e privando di agibilità i giornalisti non graditi. Cosicché la stampa ha cominciato a perdere il suo carattere di contropotere e i direttori devono dimostrare solo di riuscire a vendere più copie all’editore. In una cosa tradizionalmente voluttuaria come lo sport, che fa parte di diritto del “deinde philosophari”, si è tutti dei fachiri sui chiodi, dato che un editore difficilmente si metterà contro un presidente di un club, o contro il presidente di una federazione.

Può anche succedere che il giornalista provi ad affondare, ad andare in profondità, ma è proprio quello il momento in cui sente il dolore del graffio del chiodo sul suo deretano. Sono gli interessi del marketing e della cassa a ciclo continuo della giostra dello sport ad avvertirti che il limite non può essere superato. C’è stato un tempo in cui nel giornalismo sportivo ogni capoverso doveva essere una invenzione, ed è questo che conteneva gli interessi sordidi, che nello sport ci sono sempre stati, dall’esondare nell’indecenza conclamata. Oggi i giornalisti vanno difesi e non attaccati, bisogna costantemente tener presente che lavorano con quello che hanno, poco, e con diritti di libertà sempre più marginalizzati. Eppure, conoscendone qualcuno personalmente in profondità, la fedeltà e l’amore per il mestiere è rimasto in molti di loro. Lavorano tra le bombe e le pallottole che fischiano, e con delle famiglie che li aspettano a casa fino a notte fonda. Se lo sport ancora non è divenuto il mondo distopico di “Rollerball”, e forse per quelle righe che con ostinazione continuano a consegnare a tarda sera di ogni giorno. Proteggendo loro proteggiamo la libertà delle nostre aspirazioni. Sarà bene non dimenticarlo mai.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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