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Il miliardo del Mondiale per Club

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Torna Loquor, la rubrica di Carmelo Pennisi: "La sfrontatezza è l’audacia espressa con i glutei, perché bisogna avere..."
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“La natura non conosce indecenze. E’ l’uomo ad inventarle”

Mark Twain

La sfrontatezza è l’audacia espressa con i glutei, perché bisogna avere “culo” con un filo di stravaganza coatta, per mettere in piedi un mondiale per club con un miliardo di dollari di montepremi. Con questa cifra ci si potrebbero costruire cinque ospedali in qualsiasi landa dell’Occidente, e non è un  retorico espediente per accattivare empatia e così farmi accompagnare nella mia battaglia di mandare costantemente Gianni Infantino a quel paese. E’ che un miliardo sono davvero troppi per una competizione nata dal nulla, priva di una tradizione, e scarsa di memoria costitutiva. Dopo il mitico “Piovono Pietre” di Ken Loach siamo al “Piovono Dollari” messo in piedi dal Circo Barnum pedatorio, solo che il “Bob” di Ken “Il Rosso” ruba pecore e zolle  erbose di esclusivi campi da golf per provare a tirare a campare, mentre il Presidente della Fifa ha convinto sponsor munifici come “Ab InBev”, multinazionale della birra, che farebbe impallidire gli eroi Vichinghi del “Walhalla” per quanti ettolitri prodotti da svariati “Les Maitres de l’Orge” planetari riesce a far mandar giù alla variopinta umanità. Dimenticavi le atmosfere paradossali di “Belgrano” contro “Estrella Polar”, raccontate da Osvaldo Soriano in un suo magnifico racconto, il mondiale per club americano è la continuazione, sotto forma di un calcio ad un pallone, del panino a ciclo continuo di “McDonalds” o di “Hamburger King”. Non conta la qualità, conta la capacità di portarti dentro un contenitore di vendita sviluppato come una catena di montaggio, dove l’estraniamento del tifoso giunge esattamente come quello del lavoratore davanti ai mezzi di produzione descritto da Karl Marx in “Das Kapital”.

Creare “plusvalore” da distribuire è l’obiettivo, non certo la qualità del  sogno  o della poesia. La letteratura non passa da tempo da Zurigo, sede della Fifa, specificatamente da quando Adi Dassler e la Coca Cola furono fatte entrare nel tempio da Joao Havelange e Sepp Blatter. Non ci sono più giornalisti alla “El Gordo” Soriano, mai domo davanti alle luci al neon del neocapitalismo. Non aveva avuto paura nemmeno dei militari argentini e dei voli della morte, figurati se rinunciava a cercare storie capaci di rendere il calcio endecasillabo dell’esistenza. Ecco perché va a cercare Obdulio Varela, eroe uruguagio della finale mondiale del 1950 al “Maracanà”, e gli fa dire in una intervista: “se potessi tornare indietro, mi rifarei un gol contro”. Varela non riuscì mai a dimenticare la tristezza di aver buttato in una infinita tristezza un intero popolo, in quel giorno che rimarrà per sempre nella apologia della malinconia carioca. Con i soldi del premio per la vittoria di quel campionato del mondo, Varela si comprò un’automobile, che gli fu rubata una settimana dopo. In seguito visse in modesta condizione economica, ma alla sua morte l’Uruguay gli concesse i funerali di Stato. Quando il calcio era un racconto di vita attraverso il gesto agonistico, i tifosi non erano appassionati, ma tifosi. Il tempo scorre e nel “Panta Rei” eracliteo si sono persi persino John Kennedy e Che Guevara, figuriamoci il ricordo del calcio dei piccoli imbrogli e del dialogo con la grammatica del cielo. Nel mondo degli hamburger seriali non c’è posto per il gol di mano di Maradona o per la scaltrezza di Peregrino Fernandez.

Un giorno “El Gordo”  scova quest’ultimo in una casa di riposo e, pensate un po’, riesce a fargli confessare tutte le sue gabole, manco fosse stato un prete dentro un confessionale. “Ehi Osvaldo, è proprio vero. Approfittavo dei momento di bagarre e confusione per far giocare la mia squadra in dodici”, e via con il periodare divertito di Soriano, che descrive un Fernandez particolarmente fiero delle sue malefatte. Era un calcio dove i tifosi amavano sul serio i giornalisti migliori, cantori di ogni loro battito di cuore. Non gli fregherebbe nulla del miliardo di montepremi di Infantino, al tifoso del “San Lorenzo”, la squadra di “El Gordo” e di Papa Francesco, che ogni domenica si recava sulla tomba dell’autore di “Triste, Solitario y Final”, poggiava una radio davanti la lapide e via con la radiocronaca della partita del “San Lorenzo”. Pare che, da sotto la lastra di marmo, si sentisse battere il cuore del più grande giornalista sportivo che l’Argentina abbia mai avuto. E mentre il tango del calcio continua a ballare e i ragazzi di strada argentini hanno appena travolto il Brasile nella partita della qualificazione per prossimi mondiali, anch’essi americani, la memoria storica  va ad una giornata di settembre del 1924, quando il Savoia di Torre Annunziata sfidò il grande Genoa, già vincitore di otto campionati, in una partita che valeva lo “Scudetto”. Il Savoia perse la partita, ma le cronache raccontano che i tifosi torresi dopo il fischio finale dell’arbitro portarono a spalla in trionfo tutti i ventidue giocatori per le strade della città.

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Il calcio è una festa totalizzante quando vive la sua natura sociale costitutiva; la socialità è una delle cose per cui vale la pena vivere, in cui la gente accorre nella piazza raccontata da Giuseppe Tornatore nello splendido “Nuovo Cinema Paradiso”, dove lo scorrere delle storie incanalate dal proiezionista Philippe Noiret, sono la scusa per creare ricordi veri e immortali. Nelle relazioni attraverso i sentimenti, la vita scorre adeguatamente da loro protetta; essi ti invitano a parlare anche con degli sconosciuti, incontrati per caso sulle gradinate di uno stadio. Il calcio, quello vero e non quello di Infantino e delle piattaforme tv, ha un linguaggio comune, una sorta di esperanto esistenziale, con dei codici facilmente riconoscibili per chi lo vive nella sua vera essenza. Jurgen Sparwasser, il mito calcistico della Germania di sponda socialista, colui che segnò lo storico gol della vittoria mondiale del 1974 contro i cugini dell’ovest, quelli di Franz Beckenbauer e Gerd Muller, fu invitato nella cabina del pilota dell’aereo che stava portando il Magdeburgo a Torino per giocare una partita di Coppa dei Campioni contro la Juventus. Un bel libro di Giovanni Tosco(“Sparwasser-L’Eroe che Tradì”. Consiglierei a chiunque di comprarlo e leggerlo) rammenta le parole del pilota, dette con voce rotta dall’emozione, non appena dall’aereo si avvistò la collina di Superga: “lì è avvenuta la più grande tragedia dello sport, la tragedia del Grande Torino. Mai c’è stata una squadra così forte, mai ci sarà una squadra così forte. E mai era accaduto che un’intera nazione provasse un sentimento tanto profondo quando l’aereo si schiantò contro la collina. Era il 4 maggio del 1949. Io sono sempre stato tifoso del Toro e all’epoca ero un ragazzino. Quanta sofferenza ho provato”.

Il calcio, come detto, ha un linguaggio universale,  e Sparwasser si commosse a tal punto, come ci racconta Tosco,  che una volta in albergo raccontò questa storia a tutti i suoi compagni. Il miliardo messo a disposizione dalla Fifa sfregia la memoria dello sport più seguito al mondo, e rende tutto ciò che lo ha preceduto obsoleto e indisponibile alla comprensione di questa contemporaneità. Questo miliardo è sfacciato, persino lussurioso negli appetiti, e attacca la nostra libertà di voler rimanere illibati rispetto al consumismo indotto. Questo miliardo vuole renderci complici della dilatazione all’infinito del “plusvalore”, manipolando la coscienza verso uno strano inno alla modernità. Questa modernità vagheggia la cancellazione del rimorso, distruggendo ogni mito nel suo solo nome. Lo confesso: mi manca il contropiede, quello in cui, come scrive Osvaldo Soriano, “il difensore ha sempre in sé qualcosa di colpevole, furbastro, sleale”. La tecno/etica del Var ha tolto la bellezza del libero arbitrio, il narcisismo di alcuni allenatori ha tolto la fantasia del guizzo improvviso dal gioco, la pausa pubblicitaria durante le sostituzioni dei giocatori ha reso tutto una giostra mal funzionante, lo svolgersi dell’evento simmetrico in tutte le sue componenti ha tolto il sacro e lasciato una vuota liturgia. Poi su “You Tube” vedi un giovanotto dirti con sicumera sbilenca, che la multiproprietà e i fondi di investimento sono la modernità del calcio. Istintivamente vorrei tirargli un cazzotto sul muso, ma poi penso al miliardo di Infantino, e istantaneamente concludo come la colpa non sia dello sciagurato giovanotto. Ripenso a “Bob” di “Piovono Pietre”, quando non ce la fa ad ammazzare un montone, per macellarlo e rivenderlo a 15 sterline necessarie per il suo sostentamento. Io sto con lui, perché il limite del “plusvalore” sta proprio nella nostra umanità. Ecco perché il miliardo di Infantino non  mi rappresenta, e non rappresenta nemmeno il calcio. Forse rappresenta solo questa modernità.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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