“L’uomo è spiegabile solo con un amore
LOQUOR
Il miracolo di Milan-Torino
che trascenda lo spazio e il tempo”.
Benedetto XVI
“Ad ogni ora che siamo in vita, perché della morte è la custode”, è il curioso modo di brindare in una di quelle parti di mondo così lontana e nello stesso tempo così vicina, e che ci spinge a riflettere su quanto preziosi siano i momenti accumulati circondati da quell’inevitabile fine responsabile del valore di ogni cosa, a partire dalla bellezza. Non saprai mai quando ti sorprenderà la gioia che, al contrario dell’effimero, si stanzia nel cuore e nel ricordo e non ti abbandonerà mai più, nemmeno se dovessi finire nel fosso profondo della tristezza e della disperazione. Più forte è la gioia se viene preceduta da uno stato do scetticismo o di eccesso di sopravvalutazione di uno stato di inferiorità o di debolezza.
Il Milan Torino di Coppa Italia ha dato un serio “calcio negli stinchi” a tutti coloro seriamente convinti, perché inchinatisi alle ragioni del marketing, della necessità di far “consumare” football in sintesi di quindici minuti, giusto per fare una cronaca veloce, ovviamente a pagamento, e non disturbare troppo la volontà della “Generazione Z” di “consumare” tempo in modalità multitasking. Mentre si dipanava il racconto degli ottavi di finale della Coppa Italia, la mente correva sui fumosi dibattiti di un “Vecchio Continente” restio ad arrendersi alla visione a “stelle e strisce” dello sport, dove la logica da spettacolo ha da tempo cancellato la “vita da mediano” di Luciano Ligabue per fare luce solo sulle star, vendute a pezzettini, come si fa con le reliquie, per ingrossare i conti correnti di club nati per essere più un palcoscenico di Broadway che il filo a tenere unito il racconto di generazioni.
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La NBA o La NFL non hanno, e non hanno mai avuto, bisogno di un Lele Oriali ad esaltare la fatica di una mediana nata per sorreggere e far esprimere liberamente chi con uno scatto del talento cristallizza per sempre “i perché e i per come” si fosse lì tutti a prenderci una pausa dal tempo ordinario per provare emozioni. Le parole al servizio dello storytelling vengono pronunciate da soggetti consapevoli di dover abbandonare Oriali al suo destino, al fine di sconfiggere ogni residuo di resistenza della cultura europea troppo ancorata al romanticismo e all’anima delle cose; meglio abbassare tutto a livello dei videogiochi, prodromi della società dello svago senza memoria e dello spettacolo fine a se stesso, cercando, in modo a tratti patetico, di seguirne e finanche assorbirne il suo infantile linguaggio.
Così nascono frasi del tipo “salta anche i cammelli del deserto, dona amore” di uno dei tanti ex calciatori riciclatesi commentatori e a cui sfugge persino il senso di una buona costruzione logica di una frase. Si convincono di essere epigoni di Pablo Neruda o di Federico Garcia Lorca, e coniano frasi buone per aumentare a dismisura artificialmente la “luce” del Le Bron James della “pelota” e consegnarlo allo sfruttamento commerciale planetario. Così nascono i contratti scandalosi, e nebulosi, di Messi e Ronaldo, e vada pure a quel paese la linea mediana, con la sua fatica e il tipico olezzo sgradevole del lavoratore della working class. Abbiamo già messo Karl Marx nello scantinato della storia, fra poco provvederemo a rendere perfettamente biodegradabile nella liquidità della modernità anche la religione, a meno che non si acconci anch’essa alle esigenze del “tempo multitasking” e sintetizzi rapidamente i suoi sermoni, possibilmente adattati all’esistenzialismo da “charity”, quel luogo sospeso tra il politicamente corretto e la fuffa dove tutto si trasforma nel nome del sincretismo e dell’osmosi.
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Si esaltino i migliori e si dia ragione a Platone e ad Herbert Spencer sostenitori di una società basata sulla selezione dei “più adatti”. La mediana di una squadra di calcio appartiene al fante di trincea della I Guerra Mondiale, quello della corsa a perdifiato a schivar pallottole sull’Altopiano d’Asiago, che se va bene, dopo essere finito morente sulla neve ghiacciata, gli concedono il nome inciso su un monumento ai caduti sulla piazza del paese destinato prima o poi a far posto alla speculazione edilizia. Eppure il calcio, quello vero e dai novanta minuti più recupero, nasce in mezzo a quella fatica antica dove tutto è buio da profondità di miniera e il carbone non è punizione finta di cioccolata da calza della Befana, ma miasma pericoloso sia ai polmoni che ai sogni. In quel pezzo di campo dimenticato dai cantori del calcio postmoderno in Milan Torino si è costruito non il miracolo, ma l’ennesimo racconto di uno sport straordinario, unico nel suo genere. Un gioco che ha sconfitto la rassegnazione eroica degli Spartani alle Termopili, indicando la resistenza dovuta all’inferiorità non solo come un modo onorevole per soccombere, ma una via balsamica per riaffermare la credibilità della leggenda di Davide determinato a sconfiggere l’impossibile.
Michel Ndary Adopo e Brian Bayeye entrano sotto le luci di San Siro quando il dramma del Torino è all’apice, non si è alla catastrofica ritirata di Caporetto ma ci si sta andando molto vicini. I due quest’anno non hanno mai visto praticamente il campo, sono molti giovani e circondati dallo scetticismo generale, però provengono da quella Francia profonda dove la ferita coloniale si è trasformata in possibilità di un avvenire migliore, basta si sia disposti a lottare non lasciandosi intimidire. In un Toro, condannato a ridursi in dieci uomini a causa di un arbitro scellerato, che ormai a malapena si regge in piedi e sogna la lotteria dei rigori auspicando la “pesca” di numeri giusti, i due ragazzi si piazzano davanti la difesa e diventano l’unica possibilità della squadra di Juric di emettere qualche segno di vitalità. Sono in mediana e faticano come bestie, prendono calci ma non si voltano indietro, hanno sempre un occhio in avanti verso la porta milanista difesa da Tatarusanu.
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I rossoneri, è evidente, li sottovalutano e già pregustano di confezionare la sintesi dei 15 minuti riservati alla “Generazione Z” con i loro nomi menzionati solo per dovere di “tabellino” della cronaca di una partita vinta per prassi e diritto divino. Il Milan deve andare avanti perché il budget pubblicitario planetario del torneo ne ha bisogno, il Toro provi a ripassare bene la lezione su come si diventa “grandi”, al momento ha poco da vendere al “tempo multitasking”. I cimeli del “Grande Torino”, e le loro conseguenti suggestioni, sono pieni di ragnatele e poi il concetto di “grande” non fa in tempo a stanziarsi nel tempo parcellizzato dell’epoca digitale, caleidoscopio triste del “tutto o niente” da consumare in fretta, in attesa che Cristiano Ronaldo ci dica a quale compagnia telefonica ci si debba abbonare e Lionel Messi ci metta nel portafogli virtuale la moneta digitale, altamente speculativa ma riservata ai tifosi. Ammiccano gli occhi sorridenti le grandi stelle, mentre in mediana alla fatica si sovrappone il dolore e provare a dribblare le nebbie oscure diventa l’unico miraggio possibile.
Il racconto del calcio a San Siro prosegue, i minuti passano inesorabili e persino i secondi appaiono sillogismi dell’eternità. In tribuna Urbano Cairo ripassa il prestampato di una dichiarazione consolatoria del tipo “abbiamo giocato bene. La prossima volta andrà meglio. Nel mercato di gennaio faremo quel che si può fare.”, mentre Ivan Juric per la conferenza stampa post partita sa già cosa dire: “per giocare alla pari questo tipo di partite servono un paio di elementi di qualità”. La società dello spettacolo prevede “refrain”, sono parte del sale e del gusto adulterato voluto dal marketing. Non c’è un colpevole o un eroe, esiste solo una parte in commedia. Però il calcio è un gioco nato per sconfiggere il tempo e le mode, ha una forza intrinseca tale da procedere in autonomia rispetto alla cupidigia. Il calcio, a guardarlo bene, è il “destino buono”, per questo quando tutto sembra perso, persino la fiducia e la stima in noi stessi, Bayeye parte dalla mediana e a grandi falcate arriva quasi in prossimità della “linea di fondo” da dove fa partire un cross perfetto in direzione di un altro, Adopo, che ha deciso di credere nell’idea del compagno e si fa trovare all’appuntamento con il gol della vittoria e con la storia.
“Regalerò la maglia di questa partita alla mia famiglia”, ha detto il giovane centrocampista nell’intervista post gara e non c’è valore sufficientemente alto da poter dare a questo dono. Esci in giardino, e nel gelo di una sera di gennaio per un attimo guardi le stelle, la Luna e senti come un sussurro: “è per i diseredati, per i dimenticati, per gli uomini normali, per chi pensa di non avere un motivo, per chi si è rassegnato ad essere dannato, per chi è in astinenza di un abbraccio, per chi è stato abbandonato dal racconto, per chi non ha diritto di parola, per chi desidera la libertà, per chi ogni giorno combatte e fatica in mediana. Per questo, un giorno, ho fatto notare a qualcuno come una palla che rotola si potesse anche calciare”. Sì, il calcio è parte del destino buono, non lo si disperda nel “multitasking del tempo”.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.
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