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Il Natale di Cairo e De Laurentiis

Anthony Weatherill
Loquor / Torna l’appuntamento con Anthony Weatherill. La citazione della puntata è di Altan: "Mi racconti una favola? No, ti racconto una balla, così ti abitui".

“Mi racconti una favola? No, ti

racconto una balla, così ti abitui”.

Altan

Ogni volta che sento parlare Aurelio De Laurentiis e Urbano Cairo, confesso di sentirmi un tantino a disagio per il loro frequente traballante modo di approcciarsi alla realtà. Comprendo bene come l’autopromozione personale possa a volte essere una debolezza umana accettabile, ma qualcuno dovrebbe adoperarsi a ricordare continuamente ai due presidenti come una bugia, per avere una qualche funzione di utilità, dovrebbe avere il pregio di non essere subito scoperta. Legare, da parte di Cairo, la rinascita del “Filadelfia” ai suoi quindici anni di presidenza a molti tifosi granata è parsa più di una bugia di un bambino che prova a giustificarsi di fronte ad un barattolo di marmellata da lui stesso reso vuoto, è stata vissuta come un’autentica provocazione. Cercare di stabilire la verità esatta sulle vicende della ricostruzione del “Filadelfia” non è lo scopo di questo articolo (come non era scopo dell’ultimo articolo stabilire l’esattezza o meno delle dichiarazioni di Alfredo Pedullà sulle questioni fiscali legate al calcio. Ma qualcuno fatica sempre a capire), che invece vuole essere un tentativo di analisi sulla preoccupante situazione di dichiarazioni pubbliche rilasciate senza pensare se abbiano un fondamento di realtà.

A volte c’è da chiedersi quale sia il reale stato psichiatrico del Paese, inondato da tanta di quella cattiva informazione, da far apparire le balle e la verità posizionate simmetricamente sullo stesso pianale della decodificazione dei fatti. Perché il problema, sempre di più, non è quello di apparire credibili, ma piuttosto di “vendere” una narrazione pubblica confacente ai propri bisogni o alle proprie suggestioni. Tanto tutto passa nel tritacarne di un’informazione diventata piena di “redazionali” travestiti da articoli o di peana scritti per corroborare gli interessi della propria fazione. La mancanza di memoria provvede a far quadrare ogni conto. Quanti oggi si ricordano di un Berlusconi che trionfalmente annunciò un programma di governo dove si sarebbe sconfitto il cancro in pochi anni? Un paio di anni fa, in una esilarante intervista fatta da Walter Veltroni, Aurelio De Laurentiis discettò su tutto lo scibile presente in quel momento presente nella ribalta della cronaca nazionale. In un crescendo da statista mancato, con punte memorabili di piaggeria da “pizzicarolo” verso Veltroni (“alla Lega ci voleva un politico, ci volevi tu”), il presidente del Napoli volle comunicare alla nazione come lui, e solo lui, aveva avvertito la necessità di trattare il calcio italiano con logica da industria, confacente ad una vera cultura imprenditoriale. Ma nessuno, tale intuizione improvvisa, la voleva cogliere. Né l’allora presidente federale Carlo Tavecchio, considerato troppo vecchio dal settantunenne “giovane” Aurelio (ma si sa, l’anagrafe è una condizione dell’animo, non un mero certificato di nascita), né, chissà perchè, da Andrea Abodi, oggi presidente del Credito Sportivo dopo il fallito assalto alla posizione apicale della federazione di Via Allegri.

Ma è quando l’ex segretario del Pd gli chiede di fare un bilancio della sua gestione del Napoli, che De Laurentiis raggiunge le più alte vette dell’emozione. Lui ha preso Napoli per dare un riscatto, almeno il lunedì, ai napoletani tenuti in condizione di schiavitù per tutta la settimana. Tenuti schiavi, pensate un po’, come gli ebrei costretti a costruire le piramidi. Come gli africani costretti a imbarcarsi su dei barconi per sfidare pericolosamente il Mediterraneo per giungere in Europa, solo per soddisfare un giro di affari di 250 milioni di euro per i gestori del “trasporto”. Vano è stato il tentativo di Veltroni di ricordare al vulcanico produttore cinematografico come, forse, problemi così complessi non possano certo riguardare i presidenti delle società di calcio. Memorabile la risposta di “don” Aurelio: “sì, però noi presidenti parliamo direttamente al popolo”. A quel punto il politico riciclatosi divulgatore culturale sotto varie forme e piattaforme, resosi conto della visione surreale operata da De Laurentiis su se stesso, non deve proprio aver avuto il coraggio di rivelare al suo interlocutore come gli ebrei non avevano avuto proprio niente a che fare con la costruzione delle piramidi. Gli Egiziani non avrebbero permesso a nessuno schiavo di calpestare un suolo diventato sacro, perché futura dimora eterna dei Faraoni. Trattasi di “fake news” fatta girare dall’antichità ai giorni nostri da Erodoto. Spero nessuno ardisca a correggerlo, perché il rischio che il presidentissimo azzurro prenda in considerazione solo l’analogia della sua figura con quella del celebre storico greco, è altissimo.

Molto più modestamente il presidente del Toro, da pubblicitario in perenne servizio attivo, nel 2019 è arrivato a paragonarsi a Ferruccio Novo, perché aveva resistito alla tentazione di vendere qualcuno della squadra protagonista, pensate un po’, di un settimo posto nell’ultimo campionato della Serie A. E credendo sul serio di essere agl’albori della costruzione di un nuovo Grande Torino, Urbano Cairo, desiderando trovare un nuovo Valentino Mazzola, proprio alla porta di De Laurentiis va a bussare, aggiudicandosi le prestazioni di Simone Verdi per 22 milioni di euro. Lo shock provocato da un tale esborso di denaro deve essere stato tale, che l’imprenditore alessandrino ha avuto bisogno di aggrapparsi, per non crollare per terra dopo un conseguente barcollamento insistito, a qualcosa di familiare: “Verdi l’ho pagato 22 milioni, un regalo così bello non l’ho fatto nemmeno a mia moglie”. Ora, in attesa di scoprire prima o poi lo stato emotivo di una consorte improvvisamente venuta a sapere mezzo stampa di valere per il marito meno di una squadra di calcio, la cosa a fare più effetto è aver considerato un “regalo” l’acquisto di un calciatore “eroicamente” avvenuto a seguito di una presumibile strategia sportivo/imprenditoriale. Ma i tifosi granata stiano sereni, il loro presidente, ferito sul fronte del Piave dalla pallottola Verdi, ha provveduto dopo qualche mese a innestare una tale retromarcia da avergli fatto recuperare, probabilmente, un po’ di serenità coniugale: “ho sbagliato a paragonarmi a Novo. Un giorno venderò il Torino ad uno migliore di me”.

Sono parole, ovviamente, passibili di cambiamento all’indomani del raggiungimento di un sesto posto in campionato. Perché le parole, più che esprimere un significato, nel mondo surreale di Cairo e di De Laurentiis devono essere utili stampelle per sorreggere gli eventi. La sguaiataggine intellettuale di colui che è stato il “grande” produttore dei film di Natale e la furbizia levantina dell’epigono di Berlusconi per antonomasia, hanno molti punti in comune, ma soprattutto la certezza, chissà perché, di avere fatto qualcosa,nel calcio, spinti da un vero istinto affettivo e ideale. Urbano Cairo ha preso il Torino per realizzare un desiderio dell’amata madre, che era una tifosissima granata, De Laurentis per combattere, almeno il lunedì, la cupa forma di schiavismo in cui gli abitanti della città partenopea sono caduti. Non oso immaginare il nostro eroe cosa sarebbe stato capace di fare di fronte alla nutrita presenza di schiavi afro/americani nelle piantagioni di cotone dell’Alabama pre Guerra di Secessione americana.

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Veltroni non ha avuto la ventura di chiederglielo, preferendo prefigurare un nuovo “Piano Marshall” per l’Africa, sotto lo sguardo di De Laurentiis diventato, a quel punto, un po’ smarrito. Ma il novello Napoleone del cinema italiano si è ripreso subito, confessando addirittura di essersi ispirato a Rupert Murdoch nell’acquisto del Napoli. L’idea gli è venuta ascoltando, apprendendola, la lezione di un tizio che aveva consigliato al magnate australiano, detentore dei diritti una poderosa “library” di film (quella della “Twenty Century Fox”), di farsi una televisione di importanza mondiale: “I film ce li hai – aveva detto il tizio -, basta aggiungerci un po’ di sport e il gioco è fatto”. La nascita di Sky spiegata in un attimo, con un’analogia evidente e alquanto audace fatta con il Napoli e i film di Natale difficile da spiegare, non dico ad un auditorio di un master di marketing della Columbia University, ma persino agl’avventori “avvinazzati” di un’osteria della profonda Via Emilia. Il vero problema risiede, temo, nella convinzione dei due presidenti di essere due fulgide stelle comete del calcio italiano. E non importa se ancora non si siano individuati i “Re Magi” intenti a seguirle, perché l’importante è che siano il segno evidente come un nuovo Natale sia sempre alle porte.

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(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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