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“Il sembra a volte è bellissimo”
Da Twitter
Ci sono apparenze difficili da comprendere e da mandare giù, ma sono, appunto, apparenze. Sono apprendistati di realtà inestricabili rispetto persino a delle ombre cinesi, dove almeno le ombre stanno ad indicare profili di incertezza e di inquietudine. Josè Mario Dos Santos Mourinho Felix ha appena firmato con la Roma il suo ennesimo ricco contratto, riuscendo nell’impresa di farsi pagare sia dalla società capitolina che dal Tottenham per la prossima annata calcistica. “Mourinho rimette la Roma al centro del calcio”, ha commentato il direttore del Corriere dello Sport, Ivan Zazzaroni, facendo capire subito quale sia il reale motivo per cui una società di calcio, qualsiasi essa sia, ad un certo punto decide di servirsi della prestazione professionale di un allenatore come Mourinho. Il “Zazzaroni pensiero” prefigura enfaticamente un ritorno della Roma nell’agone del calcio, non perché voglia improvvisamente calarsi nei panni di un improvvisato mago all’Otelma, ma perché vede profilarsi nell’orizzonte capitolino una figura non molto imponente fisicamente e sempre con il sorriso stampato in bocca. Un uomo che dell’empatia ne ha fatto uno stilema da macchina macina soldi, diventando l’icona perfetta di ciò che alcuni potentati non meglio identificati vorrebbero diventasse il calcio contemporaneo: uno spettacolo altamente retribuito e dai contorni chiari solo ai suoi gestori.
Jorge Mendes nasce nel 1966 a Lisbona, una città rimasta per oltre 400 anni sotto il dominio islamico, e da cui ricevette lo status di “Dhimmi”, ossia una condizione privilegiata di autonomia nel praticare la propria religione e la certezza del diritto di proprietà, restando vigente, però, la proibizione di portare armi. Sembra il quadro politico/culturale perfetto per colui recentemente premiato come “Miglior Procuratore del Secolo”, visto che la religione praticata, il denaro, e il diritto di proprietà, magari esercitato attraverso società di comodo situate in “paradisi fiscali”, sono le uniche due questioni esistenziali di un uomo dal profondo senso pratico e dalle idee molto chiare. Verso la metà degli anni 90, giusto per capire il tipo, Mendes apre, con i suoi risparmi ricavati da una modestissima carriera di calciatore, una discoteca ed un negozio di videocassette, passatempi molto in voga tra i giovani calciatori della fine del secondo millennio. Il senso strategico certo non gli manca, e non gli importa nemmeno molto la sottovalutazione subita da gran parte del mondo. Praticare la filosofia “Dhimmi” in salsa portoghese, vuol dire essere addestrati da secoli ad aspettare il proprio momento che, statene certi, prima o poi arriverà.
Essere privi di ambizioni etico/morali dà molti vantaggi, dato che ti pone sempre nella condizione di essere sempre amico di tutti e nemico di nessuno. Creare sulla tua persona un alone divisivo, solo per provare ad imporre una tua visione del mondo? Roba inutile per il “Dhimmi” Jorge Mendes, teso solo a capire in quale direzione versare il giusto tributo, per poter proseguire a gestire in pace i propri affari. Sembrerebbe, quella del procuratore portoghese, una banale storia da uomo opulento da retrovia, ma le cose non stanno così. Non stanno proprio così. La discoteca e il negozio di videocassette presto lo portano a creare relazioni intime e di fiducia con i suoi clienti di professione calciatori e, chissà per quale misterioso arcano, ad entrare nella gestione di tutti i loro affari legati all’attività “pedatoria”. E’ il colpo da maestro atteso da una vita, il “logos” onnicomprensivo atteso sin da quando aveva ben compreso come grande calciatore non lo sarebbe diventato mai. Devono essergli passati per la testa le parole di Eraclito, “nessuna cosa avviene per caso ma tutto secondo logos e necessità”, quando sulla sua strada, dopo aver fondato la “GestiFute” dall’attuale giro d’affari di 400 milioni di euro l’anno, incontra prima Josè Mourinho e poi Cristiano Ronaldo. E’ la sua personale “trinità”, su cui fondare una religione, permessa dalla sua condizione di “Dhimmi”, assolutamente trasversale agl’interessi del calcio moderno. Perché la trasversalità è l’unico obbligo da osservare per chi varca le porte del tempio della “GestiFute”, che nell’occuparsi delle vicende dello sport più fazioso del mondo, il football, trova completamente estranea al suo credo solo una componente da giudicarsi, semplicemente, come primitiva, come un residuato del tempo che fu: i tifosi.
La faziosità, per un “Dhimmi”, deve essere proprio incomprensibile, uno stato dell’animo da evitare come la peste, perché viene percepita solo come portatrice di brutte notizie. Ed ecco allora l’apparente uomo qualunque lusitano, diventare di fatto gestore di diverse dinamiche societarie, giungendo in modalità fittizia a controllare società come Wolverhampton e Valencia, oltre praticamente a quasi tutte i club calcistici portoghesi. Operazione non difficile se controlli la fonte dell’acqua(calciatori e allenatori) dello sport più ricco e mediatico del mondo. Controllando la fonte dell’acqua, non è stato difficile, nel tempo, intrecciare rapporti con i principali sponsor tecnico/sportivi del mondo, siglando di fatto un patto di ferro, suggellato dal denaro, con i produttori dei nuovi paramenti sacri della contemporaneità. Nuovi paramenti sacri preconizzanti, fino ad imporli, nuovi modelli culturali ideati per creare conseguenti bisogni di consumo, confusi per piaceri dell’anima.
L’Adidas, nel primo decennio del terzo millennio, si è ritrovata a raddoppiare il proprio fatturato, e crescite notevoli analoghe di ricavi hanno avuto aziende concorrenti come Nike e Puma. E non è un caso come queste esplosioni di fatturato di vendita di materiale sportivo sia coinciso con l’avvento dello sport “all time” in tutti gli schermi televisivi del pianeta. Ed è in questa cornice che società come la “GestiFute” si ritrovano ad essere i “tavoli” dove la geopolitica sportiva del pianeta passa, si accomoda e trova la giusta stabilità nel nome degli interessi di tutte le parti in causa. “Sento un legame speciale con l’Inter, ma se un giorno dovesse chiamarmi una società rivale in Italia, non ci penserei due volte ad accettare”, aveva dichiarato lo scaltro Mourinho nei giorni scorsi, quando evidentemente già sapeva del suo imminente sbarco in casa giallorossa. Una dichiarazione rilasciata ad arte, probabilmente sollecitata dal vero regista dell’operazione “Roma”, ovvero quel Mendes che della trinità portoghese è il deus ex machina. A sorprendere c’è tutto l’interesse improvvisamente venuto fuori dalla trinità per l’Italia, un Paese compresso in una situazione economico/istituzionale senza precedenti.
Quali nuove opportunità mai avranno visto Mourinho, Ronaldo e Mendes nel BelPaese? Vai a sapere… comunque una questione deve essere chiara alla nota tendenza populistica/politicamente corretta in voga nell’Italia contemporanea, e cioè di non farsi cogliere in fallo dalla tentazione di voler giudicare lo stipendio del vate di Setubal troppo alto e al di fuori della portata della Roma. In questo caso l’entità di uno stipendio scandalosamente alto per un calcio continentale, a dire del duo Peres/Agnelli, sul baratro del fallimento(come sono segno di grande chiarezza a volte le contraddizioni), è da considerarsi un vero investimento, una “black card” a plafond illimitato e con il pregio di prometterti il vero miraggio agognato dai più importanti club calcistici continentali: essere invitati a partecipare alla “SuperLeague”. C’è bisogno di una città come Roma nel nuovo sogno spaziale che l’elite europea si è fatta sul calcio, e il “Dhimmi” Jorge Mendes è l’unico a poter creare le condizioni per realizzare una Roma “SuperLeague” nel più breve tempo possibile. Uno che riesce ad essere, nello stesso tempo, procuratore del calciatore, consulente del club che cede e di quello che compra, procuratore di uno degli allenatori e infine titolare di una quota dei diritti economici sul calciatore, o rappresentante degli investitori esterni che quei diritti detengono, potrebbe fare invidia alla fama di Mario Draghi e forse dovrebbero invitarlo in tutte le facoltà di economia a tenere “lezioni di PIL”.
Mino Raiola che parte da una pizzeria e Jorge Mendes che si impone da una discoteca sono una plastica analogia del nostro tempo. Un’analogia impressionante, se pensiamo ad un calcio ormai visto come uno svago per consumatori annoiati, magari alla caccia di un abbonamento per gli ultimi 15 minuti delle partite. Si vedrà se “Mou” sarà il nuovo Re di Roma, se l’investimento porterà i suoi frutti e se la trinità portoghese ancora una volta avrà visto giusto; nell’attesa dello scioglimento dei nodi, sarebbe bene ricordare una suggestione su cui riflettere: il calcio non è svago, ma è esistenzialismo. “Vada per l’esistenzialismo – potrebbe dire Mendes -, ma non fatemi stare né di là, né di qua. Piuttosto preferirei mettermi un po’ di lato, magari dove non mi si veda tanto bene”. Paraculo? A dir poco.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.
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