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Jannik Sinner o Adriano Panatta

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Torna un nuovo appuntamento con "Loquor" la rubrica di Carmelo Pennisi: "Rispetto all’epoca di Panatta oggi il gioco è “dopato” dal cambiamento dell’attrezzo, che ne ha cambiato per sempre le prestazioni mistificandole..."

“Non ho la gonna corta, ho le gambe lunghe”.

Anna Kournikova

Le imprese di Jannik Sinner stanno facendo riemergere ancora una volta lo spirito da tifosi accucciato in noi italiani, uno spirito trasmesso in qualsiasi cosa si possa creare una polarizzazione e che, nella sintesi superficiale in cui sovente ci polarizziamo, a volte fa emergere polemiche tra il surreale e il comico. Da quando Sinner ha raggiunto la quarta posizione del ranking mondiale “ATP”, e quindi eguagliando la migliore posizione di sempre di un tennista italiano detenuta per anni da Adriano Panatta, il Paese pare letteralmente circuito dalla voglia di avere un Roger Federer o un Pete Sampras a lungo repressa davanti persino agli spagnoli da anni in stato di grazia continua in quanto a sfornare campioni da top ten. Ecco, quindi, cogliere l’occasione e “ammazzare” il mito di Adriano Panatta, per poter finalmente gridare al mondo di avere un fuoriclasse in uno degli sport più famosi, universali e praticati al mondo. Agli entusiasti sarà bene ricordare che, tra tutti gli sport,  la prima partita del secolo fu giocata il 16 febbraio del 1926 al “Carlton Club” di Cannes tra Suzanne Lenglen ed Helen Mills (con code deliranti di fans ai botteghini e biglietti venduti al mercato nero a prezzi stellari), ponendo il tennis come primo sport ad essere avvenimento trasversale di genere in una cultura occidentale ancora abbastanza maschilista e con punte ragguardevoli di misoginia. Due donne tennero banco nell’informazione mondiale e furono trattate dalla gente e dagli sponsor alla stessa stregua e con lo stesso interesse dei loro colleghi uomini. Una parità di attenzione raggiunta negli altri sport (e ancora non in tutti) dopo molti anni. Questo dovrebbe dire molte cose su questo fantastico sport. “Fai del tuo meglio, cara, ma assicurati di vincere”, disse ad Helen Mills sua madre, mentre le due tenniste venivano scortate dalla folla e dai fotografi nel percorso che conduceva al campo di gioco.

Una vittoria sportiva riesce a far dimenticare svariati patimenti e ad eccitare gli animi, in noi italiani addirittura riesce a far tornare su il desiderio delle strofe di Goffredo Mameli e del tricolore esposto in un goffo rigurgito patriottico che, a dire il vero, poco c’entra con gli stilemi culturali e valoriali del tennis. In che modo dare ancora più peso ad un traguardo raggiunto? Il paragone tra Sinner e Panatta, a detrimento di quest’ultimo, sembra l’occasione per placare la sete di futurismo di cui da qualche tempo è preda l’italiano medio, inconsapevole, evidentemente, di abitare una terra tra le meno innovative dell’occidente e con tra i circuiti più oliati dei “figli di” lesti ad occupare i posti giusti con le biografie più sbagliate. In tale contesto da “ecatombe del merito”, dove si è smarrito ogni senso dell’orientamento, “Giannizzeri” ed “Erinni” del Bel Paese planano sulla kermesse tennistica mondiale in corso a Torino al “Pala Alpitour”, arrembando con il jingle “Sinner è meglio di Panatta”. “Più potente”, “autoritario nel prendersi i punti”, “più simpatico di Djokovic”, “sarà numero uno al mondo fino al compiersi dell’Apocalisse”, e via così in tutti i commenti social, perché quando sul Paese di “O Sole Mio” spunta davvero il sole la fantasia italica riesce a galoppare nell’assurdo che nemmeno Don Chisciotte della Mancia. Il dubbio di un Panatta non meno forte di Sinner, se posto, provoca al momento delle reazioni scomposte, quasi da lesa maestà in quei 50/60enni ossessionati da non apparire “boomer” (termine un tempo sociologico, oggi ridotto a categoria dello spirito del glamour. Tristezza senza fine), sin da quando la mattina si vestono con pantaloni slim fit, scarpe Sneakers Chunky o Oxford Shoes (dipende dove e come si trascorrerà la giornata), immancabile camicia bianca e, per i più audaci, persino la borsa a tracolla. Sono gli eredi del futurismo avanguardista di fascista memoria, arruolati, benché orfani di Gabriele D’Annunzio, nel futuro imperituro classificato sacrosanto e giusto (roba da far impallidire la “Swinging London” di Mary Quant). Ma un paragone tra un tennista di ieri e uno di oggi, regge ad un tentativo di analisi seria depurata dalle stimmate da “Ritorno al Futuro”?

Prendendo in esame la questione “attrezzo” (racchetta) è facile, per chiunque realmente conosca il gioco (ma temo che fra poco dalle nostri parti si subirà la mutazione genetica scaturita dall’America’ Cup di “Azzurra” o del “Moro di Venezia”: tutti velisti provetti e pronti alla “strambata” nel traffico cittadino), cominciare a dare qualche punto a favore di Adriano Panatta. Il tennista romano giocava con una racchetta di legno, molto più pesante di quelle attuali in graphite e, soprattutto, con una differenza dell’ovale passata dai 440 cm quadrati ai 630/640 cm quadrati di oggi. Alla comparsa dei “racchettoni” il commento fu unanime: “la mega racchetta farà ottenere risultati nel circuito ATP anche ai brocchi”. Per buona pace di coloro ossessionati dal “boomerismo” e dal “passatismo” è esattamente ciò che è accaduto, proiettando il tennis in una dinamica di eccessiva essenzialità basata sostanzialmente sul “servizio” e sulla potenza dei colpi, facendo diventare lo “slice” e il “top spin” alla portata di tutti e colpi di velocità impressionante anche quelli non scaturiti dal centro delle corde (cosa impossibile con le racchette di legno dall’ovale stretto, dove i colpi dovevano essere puliti e lo “slice e il “top spin” disponibili solo a chi avesse realmente del talento). Rispetto all’epoca di Panatta oggi il gioco è “dopato” dal cambiamento dell’attrezzo, che ne ha cambiato per sempre le prestazioni mistificandole. La raffinatezza sapienziale del couturier è stata sostituita dalla potenza monotona del boscaiolo (“guarda che missile ha sparato Sinner, Adriano, guarda che missile!”, era il refrain entusiasta del telecronista di Rai2, incurante di stare trasformando in un clima da “Maracanà” una partita di tennis), non si devono fare molte cose per eccellere (oggi quasi nessun tennista della “top ten” sa fare una demi-volèe decente e si assiste ad un gioco di volo a tratti imbarazzante) ma solo saper “menare” la pallina a più non posso e determinare “servizi” a 240 chilometri all’ora praticamente impossibili da ribattere, se non malamente. Sarebbe stato il paradiso di Roscoe Tanner, il “Bombardiere di Chattanooga”, il ragazzone del Tennessee tutto “servizio e risposta” (cosa anomala nel tempo in cui giocava) che sul finire degli anni 70 si elevò al 4 posto del ranking mondiale ma senza mai essere capace di vincere uno “Slam”. Fu più fortunato Ivan Lendl, uno dallo sguardo eternamente corrucciato da ex guardia di confine del “Muro di Berlino”, giunto una generazione dopo quella di Tanner e in piena esplosione del racchettone in graphite.

Il tennis stava cambiando e il suo gioco da “cecchino”, molto simile a quello del nostro Sinner, gli fruttò otto titoli dello “Slam”, anche se non riuscì mai ad afferrare quello di Wimbledon. Il gioco passato per le mani di Bill Tilden, Don Budge e Rod Laver, aveva definitivamente alterato, causa attrezzo, il concetto di talento. Una cosa simile era successa nel baseball, con l’introduzione delle mazze di alluminio al posto di quelle di legno, provocando una salire di 20 punti le medie di battuta e addirittura il raddoppio degli “home run” (i fuori campo), facendo giungere tutti gli osservatori ad una analoga conclusione: la tecnologia stava sostituendo il talento dei giocatori, il gioco si stava progressivamente impoverendo (questo fenomeno sta accadendo da anni anche in “Formula 1”) e, soprattutto, stava diminuendo. La mazza di alluminio, analogamente al racchettone in graphite, era capace di trasferire più energia ingiustificata su ogni colpo, e quindi lo stato maggiore del baseball americano ebbe la forza di fare quello che al tennis non è riuscito: abolire le mazze di metallo e fibra e tornare precipitosamente al legno. L’origine, la qualità e i motivi per cui il gioco va in scena sono molto più importanti della ricerca forsennata della vittoria tramite la tecnologia. In ciò risiede la differenza culturale tra “progresso” e “totalitarismo muscolare”, e purtroppo lo sport contemporaneo sta contribuendo a far trionfare la seconda visione. Una società in procinto di entrare acriticamente nel mondo dell’Intelligenza Artificiale di massa, con difficoltà può capire che il Panatta del 76, con i nuovi attrezzi e le moderne tecniche di allenamento del 2023 (nutrizionista e mental coach compresi) probabilmente arriverebbe a vette a cui Sinner, a mio parere, non arriverà mai. Si tratta di talento e attitudine, uniche cose da poter contrapporre al concetto di potenza e di ricerca ossessiva del controllo tramite la tecnologia. Non è una guerra tra “passatisti” e “futuristi” (solo i sessantenni che scimmiottano i trentenni possono vederla così), ma provare a capire, usufruendo della lezione del baseball, cosa si voglia esattamente dal futuro. In bocca a lupo, quindi, a Jannik Sinner, a Carlos Alcaraz, a Holger Rune, anche se sto già rimpiangendo Roger Federer. Era tra i pochi ostinati a giocare ancora a tennis, capace di distillare varietà di colpi e di accelerazioni di potenza e sapienza tattica. Quando si ama uno sport, e si crede in esso, si deve essere in grado di riconoscerne le ragioni e le origini, e avere poi la forza etico/morale di difenderle. Tutto il resto è futurismo modaiolo da accatto e sbornia da evento mediatico.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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