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La canzone del “Gallo”

La canzone del “Gallo” - immagine 1
Loquor / Torna la rubrica curata da Anthony Weatherill. La puntata odierna è interamente dedicata ad Andrea Belotti
Anthony Weatherill

“C’è qualcosa di nuovo oggi

nel sole, anzi d’antico”.

Giovanni Pascoli

“I miei genitori mi hanno insegnato il valore del sacrificio, e anche quello dell’aiuto del prossimo. L’anno scorso ho fortemente voluto che mia mamma smettesse di lavorare, perché non potevo più vederla così stanca. Mi sembrava la cosa giusta da fare”. A leggere queste parole, pare di trovarsi di fronte ad un manifesto contro la riforma delle pensioni varata da Elsa Fornero, e invece è solo il desiderio di un figlio colpito dalla fortuna di saper tirar bene dei calci ad un pallone, tanto da aver fatto prendere forma a quel desiderio. Andrea Belotti, forse senza volerlo, con quelle parole ha ricordato a tutti noi per quali valori vale la pena spendere la buona sorte ricevuta. Ritornando indietro con la mente a quel “c’era una volta” con cui comincia sempre una buona favola a lieto fine. È una controtendenza alla legge dei numeri robotizzati contemporanei, che inducono impietosamente con un numero spostato improvvisamente molto più in là, il giorno del meritato riposo definitivo dal lavoro. La favola comincia con un rifiuto, perché c’è sempre una difficoltà a sbarrarci la strada all’inizio del nostro cammino. Ce lo insegnano i “Promessi Sposi”, quando per sfuggire al tracotante potere di Don Rodrigo e alla viltà di Don Abbondio, Renzo e Lucia, gli sposi promessi, danno l’addio ai “monti sorgenti dalle acque, ed elevati al cielo; cime ineguali, note a chi è cresciuto tra voi”, consci come la Provvidenza se chiede un grande sacrificio è solo per preparare una gioia “più certa e grande”. “Prova a prenderlo uno così” sussurra a qualche elfo maligno l’allora (siamo nel 2018) allenatore dell’Udinese Massimo Oddo, mentre l’orgoglio di Calcinate si invola in una corsa di quasi settanta metri a segnare una delle sue reti più belle ed emozionanti. Ma prima di quei settanta metri c’è il rifiuto dell’Atalanta di arruolarlo nel suo settore giovanile: “l’essere scartato dall’Atalanta – dirà in seguito il bomber granata – mi ha fatto male. Per fortuna poi è arrivato l’Albinoleffe, e da allora mi sono sempre concentrato nel dare il meglio. Non mollare mai è il consiglio che ripeterei a tutti i ragazzi che cominciano a giocare”.

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A quel punto il “c’era una volta” comincia nel cuore della Val Seriana, una delle valli bergamasche definite da Gabriele D’Annunzio “immense cornucopie” di Bergamo. L’Albinoleffe è il trampolino di lancio di un giocatore che, dopo aver firmato per il Palermo, fu accolto da un’ovazione al suo rientro a Calcinate. Perché andare dalla C alla B, per un giovane calciatore appena affacciatosi nel mondo dei “grandi”, è un’emozione forte da confine sognato appena oltrepassato. È il passaggio che ti regala come vertigine l’orizzonte della possibilità di diventare un campione visibile e riconosciuto. Forse la persona più importante di un luogo abitato da appena cinquemila anime. È quella provincia italiana, specie nel lombardo veneto, dove probabilmente gli oratori funzionano ancora, a dare l’opportunità di staccarsi da una play station e da lunghi momenti passati su social virtuali. È l’antico che torna a bussare alla porta dell’anima, facendo affiorare lunghi istanti di animus italico. Quell’animus ancora non completamente arrendevole ai freddi numeri, proteso ad arrampicarsi verso vette dell’ottimismo e felice di ospitare Tafida Raqeeb, opponendo al diritto di morire sostenuto in terra inglese, il diritto di continuare a vivere. È tornata a respirare autonomamente in Italia, la piccola Tafida, realizzando quel impossibile creduto possibile ormai solo da queste parti. Perché l’antico ostinato presente nel Bel Paese e ciò che rende l’Italia un posto speciale.

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Si crede nei miracoli e nelle svolte impossibili, ecco perché un bel giorno Andrea Belotti sbarca nella sponda granata di Torino. È un talento, ma ancora grezzo e con alcune incertezze tecniche da far affiorare dubbi legittimi. “Chissà perché hanno preso lui invece di Defrel”, si erano chiesti in molti. La faccia era, ed è, quella del bravo ragazzo capitato per caso nel mondo dorato del pallone. L’inizio non è facile, e mentre già qualcuno mugugna che sì, forse veramente bisognava prendere Defrel, ecco il talento grezzo elevarsi nei meandri della storia granata. Comincia a segnare e a incidere in modo decisivo nel gioco della squadra, e da oggetto di rimpianto di Defrel diventa uomo mercato. Lo stipendio lievita, e la madre può smettere di lavorare alla “stiratura” di un’azienda di camicie. Sembrano tutti felici intorno ad Andrea, anche se i tifosi del Toro cominciano a diventare inquieti: un giocatore così forte di certo non rimarrà in granata. Giuste sono le legittime ambizioni di un ragazzo, a fronte di un Torino non certo potenza economica e dal progetto sportivo non proprio tra i più chiari. Invece il ragazzo di Calcinate rimane in granata, rinunciando a più soldi e a progetti sportivi più ambiziosi. Scelta controtendenza, perché nel calcio contemporaneo se un giocatore vuole andarsene, alla fine se ne va. Basta affidarsi ad un procuratore abile e senza molti scrupoli, e il gioco è fatto. Ma quando si è figli di quella classe operaia lombarda laboriosa e dalle radici cristiane profonde perdute fino a quel ramo del Lago di Como di manzoniana memoria, essere dei bravi ragazzi non è la debolezza dei fessi disorientati davanti al cliché digitale e apolide del mondo contemporaneo, ma una necessaria condizione dell’anima. Facile essere un Graziano Pellè qualunque, e andare a raccogliere in quattro anni di Cina 50 milioni di euro netti in un calcio dimenticato dagli stessi dei del calcio. Perché uno strano “chip” ha convinto tutti come la necessità sia comprare e consumare il più possibile, a qualsiasi costo. Fare la cosa giusta pare non essere più un orizzonte perseguibile, a meno di non essere dei fessi. Belotti è il calcio antico ostinato a resistere alla compagnia di giro dei Mino Raiola di turno, l’antico che si fa contemporaneo come Gigi Riva fece al Cagliari. E poco gli deve importare, all’attaccante del Toro, se negli ultimi tre ha guadagnato almeno trenta milioni di euro meno di Pellè, pur avendo avuto possibilità oggettive di ridurre questo divario economico. Ci sono state, in tutta evidenza, ragioni diverse da quelle economiche a trattenerlo in una realtà sportiva nemmeno lontanamente paragonabile alla Roma del munifico Franco Sensi, che convinse Francesco Totti a rifiutare il Real Madrid, ma in cambio di un importante stipendio e di una squadra vincente per lo scudetto. C’è qualcosa di etico e di “paradiso” dei sentimenti, sicuramente derivata da un’educazione ricevuta così robusta da non poter essere intaccata da nessuna somma di denaro.

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E allora, per la gioia dei tifosi del Toro, quella cresta del “Gallo” continua a correre, in piena gioia, sotto la “Curva Maratona”. “Nel calcio di oggi ci sono pochissimi giocatori che riescono a far venire la pelle d’oca quando li guardi giocare. Belotti è uno di questi”, ebbe a dire Hernan Crespo, indimenticata punta argentina, in uno dei suoi tanti racconti di calcio, rintracciando nel “Gallo” la poetica dell’inafferrabile, del mistero divenuto improvvisamente realtà. Il viso di Belotti mi ricorda la mia infanzia a Manchester, con la mia italianissima madre a raccontarmi di teorie di volti di persone lasciate nella sua amata terra, volti che mi divertiva ricostruire nella mia immaginazione, e ogni tanto ritrovati nelle foto in bianco e nero gelosamente custodite da mia madre in un cassetto di un mobile da salotto di una casa da dove si poteva vedere l’Old Trafford: il Teatro dei Sogni. Non sarebbe male se Urbano Cairo, sull’esempio di Andrea Arrica del Cagliari di Riva, prendesse in considerazione l’idea di provare a costruire una squadra forte attorno al suo giocatore più rappresentativo, giusto per vedere se al potere dei soldi si possa ancora contrapporre il potere di un’idea. Ma sì, Urbano, ti sarà capitata una giornata dove, immersi nel lavoro o nello studio, si ascolta un ciclo di canzoni giungere da una radio posta lontano all’interno di una finestra aperta. Canzoni che si susseguono senza lasciare traccia fino a quella che ci fa distogliere per un attimo dai nostri impegni, a ricordarci come la bellezza superi di almeno una spanna i nostri affanni quotidiani. Quella canzone è Andrea Belotti. E che questa canzone si possa ancora ascoltare e persino cantare, è davvero la notizia del giorno. Perché ogni tanto, come ci ricorda la storia della piccola Tafida, è bene non sperare ad una terra lieve, ma è bene pensare a come sia bella la luce del sole. E benedetto sia il canto del Gallo.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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