“Ama la vita più
Loquor
La giustizia francese irrompe nel Napoli
della sua logica”.
Fedor Dostoevskij
“Carta che vince, carta che perde”, e si stia attenti a non puntare tutto sulla carta sbagliata, poiché nell’antica questione dell’incudine e del martello aver cura di non capitare nel temuto “mezzo” è questione inderogabile per avere una vita facile e il portafoglio pieno. E allora ecco, qualche settimana fa, mettere sul banco degli imputati, in un perfetto ribaltamento del gioco delle parti in voga da qualche decennio in Italia, il Procuratore Capo della FGCI Raffaele Chinè per aver osato porre il problema delle plusvalenze fittizie, per aver cercato di opporsi ai soliti furbi disinvolti decisi a ritenere l’etica e la moralità pubblica degli inutili orpelli da confinare in qualche recinto biblico o nell’enfasi di un workshop da “maestro di vita”.
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Chinè è stato definito da alcuni valorosi articolisti come un incapace per aver portato avanti una inchiesta senza nessuna solidità giuridica, da altri, meno valorosi ma più acutamente maliziosi (si fa per dire), come uno teso a dimostrare goffamente come nel regno del Presidente Federale Gabriele Gravina il calcio persegua i furbi (il sottotesto è quello di muovere fuffa retorica da dare in pasto all’opinione pubblica e dare così un qualche merito al suo Presidente). Qualcun altro, non privo di senso dell’iperbole, si è spinto a definire “monumentale” la sconfitta di Chinè, reo semplicemente di aver cercato di porre una “Linea del Piave” non tanto per fermare lo straniero, ma per provare ad arginare “lo schifo” oramai nota caratteristica di molte attività dell’andazzo quotidiano nazionale. Siamo talmente assuefatti allo schifo da non saper più riconoscerlo nemmeno quando vi siamo immersi fino al collo e a pochi istanti da annegarci dentro. Non serve aver studiato i “Promessi Sposi” a scuola ed essersi imbattuti nel “dottor Azzecca-garbugli”, seraficamente empatico con il povero Renzo al quale ricorda come nel “saper maneggiare le grida, nessuno è reo, e nessuno è innocente”, perché poi “all’avvocato bisogna raccontare le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle”.
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Non serve perché ai valorosi commentatori della nostra stampa sportiva va chiaramente bene il metodo della Chicago degli anni 30, dove Al Capone venne condannato solo per evasione fiscale e in perfetta “punta di diritto”. Il dilettante giurista Chinè doveva sapere quanto sia improbo e vacuo il tentativo di dare una valutazione oggettiva ad un giocatore, in Italia poi, dove il criterio della soggettività regna da tempo sovrano e indisturbato e dove sui social si assiste al nuovo gioco di società: dare un’opinione su tutto lo scibile, senza avere nessuna contezza dello scibile stesso(un tempo i grafomani, nota patologia indotta da una egomania abbastanza pronunciata, rompevano le balle solo a parenti e a caritatevoli amici, ora sentono la sacra missione di doverle rompere all’intero universo). In tale “Areopago” delle sciocchezze può persino affiorare il sollecito a Chinè “a rendere dimissioni immediate per preservare dignità”, urlato da chi evidentemente si sente il più prode in carriera. Tutti, ma proprio tutti, protesi a guardare la il dito e a lasciare beatamente in pace la placida Luna. Il male, come sosteneva Hanna Arendt, non possiede profondità e alle sue radici non contiene altro che un nulla dal sapore frustrante perché non riesce a contenere nessun tipo di pensiero, nessun tipo di “catalogo” prefigurante almeno una minimale visione del mondo.
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Quando non si hanno idee per il futuro, “derubare” il presente non deve apparire poi un peccato così grave e forse lo si avverte come qualcosa in fondo sopportabile per l’intera comunità a cui si appartiene, soggetto talmente poroso da poter assorbire qualsiasi tipo di malefatta, considerandola una quisquiglia necessaria da disperdere nel grande mare del nostro quotidiano. Al resto pensa l’oblio impostosi senza trovare resistenza, perfettamente funzionale a quella tendenza all’oscurare qualsiasi evento portatore di imbarazzo alla elite. Si può spiegare solo così la noncuranza con la quale gran parte della stampa ha trattato tutta la questione delle plusvalenze fittizie e in special modo l’evidente cialtronata (manteniamoci sull’eufemistico) operata dal Napoli nell’acquisizione di Victor Osimhen dal Lille. In questo disgraziato Paese si è riusciti nell’impresa, su tre carneadi della “Primavera” del Napoli e su un portiere buono solo a scaldare una panchina, di far assurgere a “valutazione soggettiva legittima” i venti milioni di euro (quaranta miliardi di vecchie lire) messi a bilancio dal club partenopeo e dal club francese. Nel Paese del reality show, incontrastata meta mondo dove con un televoto si sono illuse le masse di poter decidere in poche puntate “scalettate” alla stessa stregua di una “Sagra della Porchetta” chi sia artista e chi no, è stato facile imporre il criterio dell’impossibilità di stabilire se dietro i venti milioni di euro rifilati sotto forma di quattro parodie di giocatori ci fosse un raggiro delle regole o un abbaglio da incompetenti di mercato.
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Dalle parti di Lille, è cosa nota, un appartamentino nello storico quartiere operaio viene generalmente “prezzato” quanto una villa in “Costa Azzurra”. E chi siamo noi, o Chinè, per poter affermare di trovarsi di fronte ad un classico caso di concorrenza sleale e di una possibile manipolazione di un bilancio? Noi, e Chinè, effettivamente non si è nessuno, ma per fortuna a volte esiste il famoso “Giudice a Berlino” a portare ordine nella protervia, figlia dell’impunità, di tipi all’Aurelio De Laurentiis. Eh sì, esiste un tribunale francese, quello di Lille (sono dei dilettanti anche loro. Si autodistruggano immediatamente per dignità), poco convinto ad accontentarsi dello storytelling abilmente (anche questo si fa per dire) messo in piedi dalle nostre parti e ha avviato una inchiesta internazionale, dalla quale sono scaturite perquisizioni delle sedi di Napoli e Lille. Le ipotesi di reato sono quelle di dichiarazione fraudolenta e falso in bilancio. Considerato come il diavolo faccia le pentole ma non i coperchi, pian piano stanno emergendo interessanti scampoli di verità, e il primo è una incredibile ammissione di Gerard Lopez, ex presidente del club francese, il quale sostiene di non interessargli molto se “i calciatori ottenuti in cambio (nell’affare Osimhen) non valgano un chiodo. C’erano 40 milioni che il club doveva coprire durante il periodo Covid. Posso dire che quel trasferimento ha salvato la società”. Chinè non ha capito il risvolto umanitario insito nel trasferimento sotto il Vesuvio del calciatore nigeriano, peccato che Lopez al momento sia accusato dalla giustizia francese di aver fatto sparire dalle casse del Lille quasi 70 milioni di euro dirottati sui conti di alcune sue società. Ma anche queste sono pinzellacchere, secondo i criteri molto labili di digeribilità delle continue trasgressioni etico/morali vigenti dalle nostre parti. “Il pronunciamento del Tribunale Federale ha confermato che l’operazione è stata assolutamente cristallina”, sostiene il legale del Napoli Mattia Grassani, ma la Guardia di Finanzia pare si stia convincendo come di cristallino nel trasferimento di Osimhen ci siano stati solo i calici di champagne con cui si è brindato alla conclusione positiva dell’affare. Infatti, ci si troverebbe di fronte, volendo restare sul minimo, al reato finanziario di sovrafatturazione e con conseguenti risvolti penali, come ammonisce una sentenza della Corte di Cassazione del 2017.
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Ma lasciando al potere giudiziario quel che è del potere giudiziario, sarà bene sottolineare un qualcosa sfuggita a tutti i valorosi cronisti pronti a prendere una pietra in mano per procedere alla lapidazione di Chinè: beneficiando delle notevoli e determinanti prestazioni di Victor Osimehen il club di De Laurentiis ha potuto agguantare una posizione Champions, con tutte le prebende monetarie accessorie relative. In un calcio dove la disponibilità economica conta sempre di più per allestire rose competitive, una sovrafatturazione e un falso in bilancio, se le Procure di Lille e Napoli dovessero ovviamente accertare il reato, avrebbero consentito al Napoli di aver comunque conseguito il suo scopo. Il declino del Paese è perfettamente riassunto in questa storia avvilente, rappresentazione di un landa desolata dove non esiste più la percezione tra il bene e il male, dove l’assuefazione all’aggiramento delle regole è diventata pietra miliare della società. A vincere è il più disinvolto, spacciato per il più bravo. Il dispiacere e il disincanto prevalgono, rispetto ad un gioco amato per generazioni e ora abbandonato a se stesso, in un crepuscolo al quale fatichiamo ad abituarci e persino a riconoscerlo. Completamente smarriti e con un telecomando in mano in attesa di dissolverci in un altro reality show.
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Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.
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