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columnist
“Il mondo è un libro”
Sant’Agostino
Ci sono molti motivi per amare Roma, una città con un’incredibile storia e con uno spirito difficile da descrivere, tanta e tale è la sua grandezza. Roma, quando la conosci e ne afferri il mistero, poi risulta difficile starle lontana, perché è davvero la “Grande Bellezza” evocata da Paolo Sorrentino. In questi due mesi di Roma deserta, mi è mancato molto il lunedì post campionato, dove i commenti nei luoghi pubblici sulle gesta di Roma e Lazio, in genere danno vita a tutta una serie di metafore ironiche, che segnano tutto l’esistenzialismo capitolino. Ah, se la storia del calcio ha belle storie da raccontare. Qualcuno ha scritto che in esso si semplificano i “concetti che strutturano la nostra esistenza: giustizia, fatalità, ragione, istinto, compassione, furbizia, riconoscenza, moralità”. C’è tanto di quel nostro e dell’incerto destino in quella palla che rotola sul prato verde, che spesso facciamo fatica a notarlo. C’è dentro il carattere di un popolo, invaso da istanti di autentica gioia nel momento in cui l’oggetto sferico gonfia la rete di una porta. È il momento che diventa indimenticabile, e di cui siamo testimoni in notti d’inverno di anche trenta o quarant’anni dopo, di fronte a degli sguardi alla ricerca di ologrammi immaginari ispirati da gesta sportive leggendarie.
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Alla vigilia di Italia-Brasile del 5 luglio 1982, in Italia era diffuso il sentimento che il più, in fondo, era stato già fatto. Si era superata l’Argentina di Maradona, e quello poteva bastare a giustificazione di una spedizione mondiale spagnola non certa partita sotto i migliori auspici, strappando una qualificazione della prima fase a gironi grazie ad uno scivolone del portiere camerunense Thomas N’Kono. Un pareggio con il Brasile non sarebbe bastato per accedere in semifinale, e pensare di vincere con uno dei Brasile più forte di sempre era stato mentalmente scartato. Ci sono vette da non potersi scalare, e Zico e compagni erano una di quelle. Paolo Rossi, su cui il commissario tecnico Enzo Bearzot aveva fortemente puntato, dopo due anni di squalifica sembrava essere l’ombra, anzi il fantasma, di colui che era stato il principe di ogni rapina in aerea di rigore. L’idea, quindi, era quella di contenere i danni nell’impossibile sfida contro la super squadra carioca. Questo chiedeva la grande stampa italiana, questo speravano i dirigenti della Federcalcio di allora, questo in cuor loro volevano tutti i tifosi degli azzurri. È curioso come gli italiani, per una strana congiunzione storica cultural/esistenziale, ritengano in alcuni frangenti di non valere quel tanto da sperare in qualsivoglia miracolo. Ad un certo punto l’italiano si deprime e smette di sognare, scambiando l’arrendevolezza con una pragmatica accettazione dello stato di realtà. Ritiene quello stato di realtà essere molto più forte di lui. Eppure quello italiano è un popolo dalle forti e caratterizzanti radici cristiane, che un giorno di qualche millennio fa portò undici uomini a errare il mondo, per convincerlo come le parole di un uomo salito su un “Calvario” e inchiodato su una croce, potessero cambiare e trasformare il mondo in modo definitivo. Quanto ottimismo dovevano avere quegli undici uomini?
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“Quando sono triste o mi duole un ginocchio, mia moglie sa che c’è un solo rimedio: apro il pc, cerco Italia-Brasile e mi passa tutto. Ho arbitrato l’incontro più bello della storia. E neanche dovevo esserci”, racconterà diversi anni dopo Abraham Klein, l’arbitro di quella partita del mondiale spagnolo. Fu un mondiale influenzato da diversi accadimenti drammatici che stavano avvenendo nel mondo. Diversi giocatori argentini avevano familiari e parenti combattenti nella guerra con l’Inghilterra per il possesso della Malvinas/Falkland, e il 6 giugno 1982 le forze armate israeliane avevano dato inizio, invadendo parte del Libano, all’Operazione Pace in Galilea, in risposta all’assassinio di Shlomo Argov, l’allora ambasciatore nel Regno Unito. Le emittenti televisive dei paesi arabi, con Kuwait e Algeria qualificate, non volevano un arbitro israeliano, e per ottenere ciò la minaccia era quella di boicottare i mondiali spagnoli. Il sogno di Klein di arbitrare in un mondiale stava per perdersi in uno dei tanti incroci crudeli messi in scena ogni tanto dalla storia; ma spesso si dimentica, contrariamente a quanto riteneva Karl Marx, come gli uomini possano, invece di esserne vittime, anche essere protagonisti della Storia. E un protagonista della storia sportiva mondiale è stato senza dubbio Artemio Franchi, uno dei più grandi dirigenti sportivi che l’Italia abbia mai avuto. Franchi, nel 1982 a capo della commissione arbitri della Fifa, non si fa piegare dal ricatto e Abraham Klein viene così arruolato tra i 44 arbitri mondiali. Ma sulla strada che lo porterà ad arbitrare una delle più belle e intense partite di sempre, all’improvviso si palesa il dramma più grande ed inatteso. Il figlio Amit viene mandato in prima linea nella guerra in Libano, e nell’angoscia del rischio di vita incombente sull’adorato congiunto, prende la decisione di abbandonare il suo sogno mundial, per tornare a case e stare accanto alla moglie in un momento assai difficile. “Presidente, non ho la testa”, dice ad Artemio Franchi che, comprendendo il dramma umano del suo arbitro e con grande abilità da dirigente, riesce a convincerlo ad attendere notizie da suo figlio, prima di decidere se lasciarsi definitivamente dietro le spalle l’apice di una carriera sportiva. Klein, per sua fortuna, gli da retta, e qualche giorno dopo riceve prima un telegramma e poi una telefonata da Amit, che gli racconta come con i suoi commilitoni vedano le partite del mondiale con un televisore appoggiato su un tank. Poi lo esorta: “Papà, voglio vederti in campo”.
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Quando Klein comunica a Franchi di essere pronto ad arbitrare, il dirigente italiano sa che quest’uomo, a cui l’olocausto non è riuscito a strappare nessun tipo di sogno o progetto, ha il carattere giusto per non sentire soggezione verso il grande Brasile lanciato verso la vittoria del mondiale, sentito suo quasi come un diritto divino. Forse, ma non lo sapremo mai a causa della prematura scomparsa di Franchi qualche tempo dopo, il dirigente italiano sa che tra il diritto divino preteso dai potenti e l’ansia di riscatto di chi è convinto di non poter competere, quell’uomo venuto da una terra di frontiera può essere quel “giudice a Berlino” di brechtiana memoria. È l’uomo di cui Italia-Brasile ha bisogno. È il gancio provvidenziale a cui guardare come segno premonitore, anche se gli italiani non lo guardano nemmeno. Loro sono convinti di perdere, quindi contenimento continua a rimanere la parola d’ordine. Klein non si piega al presunto diritto divino carioca, non concede un rigore inesistente preteso dai brasiliani e, soprattutto, non considera gol, sarebbe stato il 3 a 3, un colpo di testa bloccato da Dino Zoff sulla linea di porta. Il resto lo fa la resurrezione di Paolo Rossi e l’orgoglio italiano, non domi nemmeno davanti ad una delle più belle “finte” di sempre, con cui Paulo Roberto Falcao manda in bambola una delle difese più forti del mondo, andando a siglare il due a due. Mancano solo venti minuti e, soprattutto, come si è detto, ai brasiliani basta solo il pareggio per andare in semifinale. Sotto la tremenda calura di una tipica estate spagnola, stremati da una partita dagli elevati ritmi e con in testa la parola “contenimento”, gli azzurri potrebbero tranquillamente accontentarsi ed aspettare il fischio finale dell’arbitro israeliano. Con la vittoria sull’Argentina e con il pareggio contro la squadra più forte del mondo, nessuno in patria potrà rimproverargli niente: si è fatto il massimo e si è contenuto meglio. E invece il mondo sta per assistere al motivo intrinseco per cui gli italiani, figli di una piccola terra protesa verso il Mediterraneo e sempre litigiosi tra di loro, si sono guadagnati un posto di prima grandezza nella storia delle vicende umane.
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La squadra, sotto il sole dello stadio “Sarrià”, si riporta in avanti. No, oggi non si contiene niente, oggi si va a vincere. Questo sembrano urlare quelle maglie azzurre intrise di sudore e figlie di un dio minore. E il miracolo avviene sei minuti dopo il pareggio del divino Falcao. Nella piena confusione di un’azione nell’area di rigore carioca, parte un tiro che sembra un missile ed è il 3 a 2. Dopo attimi di sconcerto, perché non si capisce chi è stato ad aver scagliato il missile, è il telecronista brasiliano a dare, affranto da dolore, per primo la notizia al mondo: “no, non è possibile. Ancora lui. Paolo Rossi. La disgrazia si è abbattuta sul Brasile”. Gli dei vengono sconfitti da un manipolo di uomini non disposti ad arrendersi, e regalano agl’italiani una gioia che non dimenticheranno mai più. Salvano un governo traballante e contribuiscono a far reagire il Paese da una grave crisi economica. Ecco perché, in Italia, nessuno potrà mai dimenticarsi di loro. Essi sono l’Italia di ogni tempo, sono il Rinascimento, sono la cultura cristiana a cui tutti guardano, sono il genio della tecnica, sono gli emigranti che hanno portato la loro laboriosità in tutto il mondo, sono il popolo dei valori familiari, sono coloro che non si arrendono mai, sono un abbraccio e due baci sulle guance. Sono gli italiani. E al diavolo il contenimento.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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