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La Serie A giocherà all’estero?

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Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“Una città la fanno i cittadini”

Pino Caruso

Diversi anni fa, in uno dei primi articoli di questa rubrica, scrissi che nell’antichità il “talento” designava una moneta greca, configurando il denaro come simbolo archetipo del “valore”, cosicché quando una persona realizzava positivamente le proprie qualità sul mercato, finiva per realizzare se stesso come persona di valore. Pare quasi una provocazione agli dei misurare tutto con il denaro, aggrovigliati come siamo in singolar tenzone con il cinismo che impone di accettare il tempo fuggevole e i mutamenti conseguenti.

Il calcio fino ad un certo punto delle sue vicende era riuscito a sconfiggere il tempo, comprimendolo nelle sue regole immutabili a garanzia del passato, del presente e del futuro. Il calcio era rivoluzione pur conservando, era muoversi senza spostarsi, era la certezza della regola erta come un faro a difendere tutta la storia del Vecchio Continente, dove il calcio è stato inventato e sviluppato, e dove ha trovato tutta la sua fortuna. Poi un giorno, non si capisce in nome di chi o cosa, la FIFA ha cominciato a corromperlo, ponendo il “talento” greco come unica unità di misura di questo sport. Si rivende come super partes l’organizzazione mondiale del calcio, ma ha fatto diventare il gioco più amato una spelonca di briganti, un cenacolo di avventurieri, una ridotta di ambizioni di geopolitica tra lo squallido e l’assurdo. Ha potuto fare tutto questo a causa del nostro esserci messi fuori dal tempo, e questo succede quando si considera solo il presente. “Tutto ciò che si può dire del mondo è il suo essere non ragionevole”, ha scritto Albert Camus, uno che per una partita di calcio era capace di astrarsi temporaneamente dal mondo e dai suoi affanni.

E nel suo essere non ragionevole, il mondo è costretto a confrontarsi persino con gli imbecilli, convinti dal loro ego di essere una buona moneta di scambio per ogni cosa, interpreti non richiesti delle umane vicende, ridotte al basico incrostato nei loro cervelli. L’imbecille potrebbe tranquillamente dire: “ma suvvia, non fare il boomer! Cosa vuoi che sia qualche partita di campionato giocata in America o fra le dune arabe. Tanto questi qua non hanno nessuna intenzione di fare gli stadi nuovi, ed io da tempo mi sono sbracato quieto tra le mura di casa a vedermi partite h24 sul mio megaschermo piatto. E poi bisogna aprirsi al futuro e all’avanguardia da esso proposto”. Ti manipolano con la cupidigia per la novità, con la moda di andare oltre la sazietà fino al lirismo quasi da spot del “non deve esserci mai la fame, ma la soddisfazione satolla”, e poco importa se questa ti comprima lo stomaco e la mente con una sensazione di scoppio imminente.

L’avanguardia spinge i suoi confini sempre più avanti, non c’è più “limes” da rispettare ma solo il suo scavallamento continuo. “L’avanguardia è un dato necessario - disse in una celebre intervista del 1976 Vittorio Gassman-, però è una eccezione che si contrappone ad una regola. Quindi, direi la regola è necessaria perfino all’avanguardia”. Una regola aurea del calcio è l’ancoraggio sicuro alla sua natura “comunitaria”, dove la maglia trova un significato non in relazione alle sue vittorie, che sono importanti ma alquanto effimere, ma rispetto al territorio dove essa ha sviluppato la sua storia. La maglia ricava linfa vitale dal rappresentare i sentimenti di una terra e di una città, e quando gioca “in casa” diventa qualcosa di più dell’avere il vantaggio di un tifo amico, ma è un ricevere gli altri, grazie anche alla tv, nel luogo dove la sua storia ha messo radici e si è sviluppata. Il luogo racconta l’ampiezza della sua visione e l’altezza dei suoi sogni, risponde a delle domande, si confronta e si contrappone con qualcosa altro di diverso da lui. Una maglia raccoglie e racconta tutto questo, proprio perché non è il talento tramutato in denaro a misurare il valore di una cosa.

Ma al palazzo della FIFA di Zurigo non la pensano così, sradicare ogni cosa è diventata la parola d’ordine, specie nell’era di Gianni Infantino, una delle più incredibili facce di bronzo mai apparse sul palcoscenico del calcio. Le facce di bronzo hanno una caratteristica ad accomunarli, ogni volta qualcuno più potente accenna a volerli controllare, per provare a limitarne gli appetiti, invocano l’indipendenza dello sport. Ma il calcio non è della FIFA, egregio Infantino, questo sport è un bene comune esattamente come l’acqua o la corrente elettrica. Non si può fare qualsiasi cosa con il calcio, solo perché si vuole aumentare continuamente a dismisura il fatturato da distribuire a tutti i suoi protagonisti evidentemente mai sazi di denaro e privilegi. C’è un limite a tutte le cose che il governo del calcio ha deciso di non porsi, ecco il motivo per cui si sta pensando di far giocare alcune partite della nostra Serie A all’estero. Tentativo di espatrio di Lega già provato da altre parti, ma bloccato poiché nessuno si trova economicamente alla canna del gas come il nostro calcio, divenuto a causa di ciò assai ricattabile e seducibile. Dalle parti di Zurigo vogliono utilizzare la nostra drammatica debolezza per sfondare l’ennesimo muro etico, cogliendo come opportunità la voracità dei protagonisti della Serie A, incredibilmente restii ad accettare la fine dell’epoca delle vacche grasse. Gianni Infantino, con il suo solito piglio da Napoleone mancato, a questo punto ha deciso di mettere su un gruppo di lavoro per occuparsi della questione, che tradotto nel linguaggio contemporaneo vuol dire studiare bene come rendere profittevole per tutti gli interessi generati da questa nuova poco commendevole commedia pallonara.

Ci si prepari, quindi, a vedere Torino Juventus non più all’ombra della “Mole” ma tra il vento sabbioso di Riyad o la luce accecante di Los Angeles. Diranno che lo si fa nel nome del calcio, perché arrivi a tutti, in modo da rendere questo sport ancora più forte e infinitamente più bello. Tu ci credi e applaudi, e dopo qualche tempo ecco come si ricominci ad andare a caccia di nuove occasioni di ricavi, con conseguente abbattimento di nuovi “limes”. Si ha poca memoria, altrimenti ricorderemmo come dovesse essere un tripudio per il calcio italiano la legge 435 voluta nel 1996 da Walter Veltroni, il comunista non comunista più americano di sempre, in cui si ammise lo scopo di lucro per i club calcistici. Erano tutti d’accordo, persino Rifondazione Comunista attraverso il suo allora responsabile economico Nerio Nesi: "ci vuole un cambio di mentalità”, disse colui che fu banchiere e comunista, altro splendido ossimoro in stile veltroniano. Come si sa, è finita male, con un passaggio in borsa dei nostri club somigliante più alla vanagloriosa guerra scatenata contro la Grecia da Benito Mussolini, che ad una nuova via dell’oro. Ci si illuse come la passione dei tifosi potesse trasmigrare tranquillamente nell’investimento borsistico, assicurando così solidità ai bilanci. Sperava, l’élite del calcio, di essere davanti ad una monetizzazione provvidenziale della nota circonvenzione d’incapace dei tifosi, e invece tutto si tramutò presto in triste barzelletta(ennesimo ossimoro stupefacente). Legare come sottostante esclusivamente il risultato sportivo ad un investimento è una idea bislacca che solo dalle nostri parti si poteva pensare di congegnare.

Solo una élite priva di senso e di visione, ovvero quella della nostro sport che strilla all’indipendenza volendo recepirne gli onori non gli oneri, era capace di non comprendere appieno lo spirito fondativo della “Premier League”, ovvero stadi di proprietà, merchandising, bilanci corretti senza plusvalenze fittizie. Queste dovevano essere le necessarie pre-condizioni dello sbarco in borsa, invece si decise di rinviare tutto al sempre immaginifico “dopo”. Successe così anche con il nostro ingresso nell’Euro. Ci si illude di essere l’Inghilterra, e nell’Euro la Germania, e infine si scopre che siamo semplicemente l’Italia con i suoi soliti atavici difetti. Ma anche allora si volevano soldi, si volevano subito, e se ne volevano tanti. Sembra la trama di uno dei tanti bei film di Mario Monicelli, e non poteva mancare il consueto afflato proveniente da una stampa a volte è più ignorante che complice. Così entusiasticamente commentava sull’argomento il “Corriere della Sera” nel 1997: “guadagnare dai tifosi in Gran Bretagna è possibile da anni e c’è chi ha ottenuto performance del 200%”. Un commento che fa il paio con quello di Romano Prodi alla fine degli anni 90: “con l’Euro lavoreremo di meno e guadagneremo di più”.

Gianni Infantino, italiano dentro sino al midollo nonostante la sua residenza svizzera poi spostata in Qatar (sempre per il bene del calcio, si intende), conosce bene il paraculismo da “Gattopardo” e l’avidità della nostra élite, e su questo sta giocando per sfondare le note “Finestre di Overton” a livello globale. L’investimento in azioni non ha mai portato i tifosi all’interno dei club, non ha mai migliorato in niente le sorti del calcio italiano, è stato solo un altro ennesimo modo di raccattare soldi attraverso il calcio. Eh, i talenti… servirebbero per esprimere il meglio dell’azione umana, come ricorda il Cristo nella famosa Parabola. Invece nel tempo questa parola, legata in modo ancestrale ad un dono ricevuto dal Creatore/natura, è stata prima convertita in moneta e poi depositata in banca a maturare interessi. La mistificazione ha le sue leggi, e non sempre la verità riesce a raccontarle.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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