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LOQUOR

La storia infinita ed imprevista del calcio

Torna un nuovo appuntamento di "Loquor", la rubrica a cura di Carmelo Pennisi

“Tutto era previsto, tranne

la vittoria dell’Uruguay”

Jules Rimet

Aaahhh, Obdulio Varela… giocatori così non ne nascono più da tempo, e non pensiate sia  il suo talento a farmi dire questo, e non fate andare l’immaginazione nemmeno a chissà quale grande magia con i piedi. Era un centromediano di quelli ruvidi e con piedi educati che possono nascere solo dalle parti del Rio de La Plata, dove il calcio si incontra con il tango e fa nascere fiumi di polemiche se Carlos Gardel, il re assoluto del “pensiero triste che si balla”, fosse uruguagio o argentino. No, Varela non era di quei fuoriclasse capaci di trasformare dei “lavoratori della panca” in geni del bel gioco e della tattica, era un “hombre vertical” nella vita come in un prato verde. Solo persone dopate dal pensiero del marketing subliminale possono accostare la parola “evoluzione” al calcio, persone per niente attente alle gesta dei calciatori del Rio de La Plata, abituati a stare in bilico sulla vertigine del  vecchio e del nuovo, consapevoli come una traiettoria di un pallone può essere tracciata bene o male. E niente altro. Ed è così dai tempi delle “Regole di Sheffield”, in cui fu vietato per sempre anche l’utilizzo delle mani nel gioco più seguito al mondo, determinato a volte ad essere triste e drammatico ma mai pessimista. 4-3-3, 4-3-2-1, falso nueve e tutte le menate provenienti dalla mente dei “Mago Merlino” della panca, perdono ogni significato quando davanti hai novanta minuti di una finale dei mondiali da giocare. Il “Maracanà” colmo di 200.000 spettatori(praticamente tutta la città di Padova) potrebbe tranciare le gambe anche all’animo dei più coraggiosi, potrebbe far maledire persino il momento in cui avete deciso di dedicarvi al football. Quando la tv non esisteva il mondo era tutto lì, all’interno di uno stadio pensato e costruito proprio per quel momento: la vittoria mondiale dei “verdeoro” più famosi del pianeta.

Ma quando sei lì non giochi solo contro il mondo, ma anche contro uno stato di grazia di giocatori privi di ogni inibizione e pronti a fantasticare, improvvisare ed inventare. I giocatori brasiliani sono come la “Ragazza di Ipanema” immaginata e messa in rima canora da Antonio Carlos Jobim nella più immortale canzone carioca di sempre: con un pallone tra i piedi replicano il samba e sembrano tutti alti, abbronzati, giovani e adorabili, oppure possono improvvisamente trasformarsi in dei “vira latas”, in cani randagi. I loro avversari devono provare a portarli proprio in questo tunnel psicoanalitico, se vogliono avere una possibilità di vincere contro i giocatori più talentati del globo. L’amore pazzo per la “pelota”, diventa disperatamente randagio quando il giocatore carioca dimentica di non giocare contro sé stesso, ma contro un avversario. Lo sappiamo bene noi italiani, che nei famosi quarti di finale dei mondiali del 1982 riuscimmo a farlo dimenticare anche a gente del calibro di Falcao, Zico e Socrates. Come in quel pomeriggio assolato dell’82, anche in quel 16 luglio del 1950 sarebbe bastato un pareggio per vincere. Roba in fondo quasi da poco se sostenuti da un immenso talento, da 200.000 connazionali(ma probabilmente erano molti di più) e dal vento della storia che li voleva assolutamente vincitori. Varela sa bene come ogni giocatore verdeoro abbia ricevuto il giorno prima della partita un orologio con la scritta “Campeoes do Mundo”, direttamente nel loro ritiro di “Barra da Tijuca”, dove tutto è più un anfratto di paradiso che Brasile, tagliato da una “Avenidas das Americas” a rendere preziosa essenza anche il refolo di salsedine proveniente dalla spiaggia che le corre affianco. Il 16 luglio, poi, è dedicato alla “Madonna del Monte Carmelo”, quel monte situato in uno dei luoghi più suggestivi di Israele dove le Sacre Scritture collocano il luogo privilegiato dell’incontro con Dio, divenuto metafora dell’anticipazione del Paradiso. Tutto gioca a favore dei brasiliani; ubriachi di superstizione e di misticismo molti di loro scommettono qualunque cosa abbiano sull’affermazione della loro nazionale. Varela è nato povero e continua in parte ad esserlo (in quel tempo, in Sud America, alla maggior parte dei giocatori viene dato come compenso a malapena di che vivere o poco di più), in fondo una finale mondiale al “Maracanà” contro il sublime brasiliano è più di quanto avesse potuto mai immaginare.

Tornare in patria e raccontarlo per tutta la vita finché si ha fiato e un cuore a reggerlo, e nessuno mai lì a rimproverarti di aver perso contro gli artisti del calcio a casa loro. Il cielo con un dito lo si tocca anche così, e che magnifica roba è questo sport da poterti regalare un giorno del genere. I dirigenti della federazione uruguagia, pochi minuti prima della finale, entrano negli spogliatoi e auspicano una sconfitta onorevole, forse perché spaventati dalle urla dei 200.000, ringraziando i giocatori di essere comunque giunti a giocarsi quel giorno. Varela scatta in piedi parlando forte, quasi a coprire il vociare di  tutte quelle persone convinte di stare preparandosi per un carnevale inedito: “quelli là fuori non esistono”! e poi, voltandosi verso i suoi dirigenti e assumendo un tono di voce di una assertività impressionante, disse senza possibilità di replica: “non ci sono rese onorevoli in questo sport, in un campo di calcio devi essere pronto a uccidere o a morire”. Aveva ancora negli occhi i festeggiamenti a Montevideo per la vittoria dei mondiali del 1930, un popolo ubriaco di felicità proteso ad accogliere i suoi eroi. Voleva tornare a Montevideo con la “Coppa Rimet” ed essere eroe per la sua gente, ragguagliare in eterno ai suoi affetti le motivazioni che portarono all’impresa. Ma davanti c’era il Brasile, cartolina di un popolo che con il pallone ci va persino a letto dopo averlo spolverato dalla sabbia delle sue interminabili spiagge. La mattina del 16 luglio il quotidiano “O Mundo” aveva sovrastato una foto della squadra brasiliana con un titolo ignaro dell’esistenza della scaramanzia: “Questi sono i campioni del mondo”. Il capitano de “La Celeste” ebbe una smorfia di disgusto nel vederla, qualche anno dopo confiderà in una sua autobiografia la sua totale diffidenza verso la stampa. “le uniche due cose vere di un giornale sono la data e il prezzo”. Quasi un paradosso per uno che a 8 anni, per aiutare la madre lasciata sola da un marito in fuga dalle sue responsabilità, vendeva giornali davanti agli hotel e agli angoli delle strade. Qualche pesos per migliorare un po’ la sua vita e poi via, a correre a giocare a pallone ovunque fosse possibile. Eduardo Galeano e Osvaldo Soriano(fuoriclasse quasi inarrivabili delle vicende di sport) racconteranno quel che poi è stato affidato alle cronache. I brasiliani si schierano in un asfissiante pressing offensivo(già, esisteva anche allora, solo che i carioca non hanno mai detto, come qualcuno, di aver cambiato la storia del calcio), l’allenatore uruguagio, di contro, schiera la squadra come più o meno farà in seguito il Mourinho del “triplete” nella semifinale Champions del “Camp Nou” contro il Barcellona nel 2010. Annibale , nella  “Battaglia di Canne”, non avrebbe saputo fare meglio. I brasiliani si smarrirono all’interno di un imbuto incomprensibile per la loro fantasia, anche se per un attimo si illusero di portarsi a casa la coppa, considerando come gli sarebbe basato un pari. Ma il narciso in agguato in ognuno di noi a volte deborda e il Brasile vuole a tutti costi lo scalpo dell’Uruguay, mira ad una festa completa di annientamento dell’avversario.

Non avevano considerato l’esistenza del destino avverso, appalesatosi quel 16 luglio sotto la forma di Alcides Ghiggia: dribbling sulla fascia destra, solita mancanza di senso della posizione dei portieri brasiliani, lato sinistro della porta carioca lasciato completamente sguarnito, pallone in rete. “la fusione della fantasia e della estrema concretezza uruguagia”, scrisse Gianni Brera, avevano consegnato la “Coppa Rimet” agli sfavoriti, sotto lo stupore dello stesso Jules Rimet e del Maracanà ammutolito. Sulle scalette dell’aereo che aveva riportato gli eroi a Montevideo, Obdulio Varela, tra l’entusiasmo della gente accorsa all’aeroporto, prese una decisione quasi inspiegabile: indossò un impermeabile, rialzò il bavero e fece scendere un cappello fino al naso, riuscendo così a passare inosservato tra la folla. Qualche anno dopo racconterà di essere andato in un bar di Rio De Janeiro, dopo la finale, e di essere stato riconosciuto da un tizio grande e grosso che non finiva di piangere per la sconfitta. “Ho pensato che mi avrebbe ammazzato, invece mi ha abbracciato continuando a piangere. Subito dopo mi ha detto: “accetti di bere un bicchiere con noi? Vogliamo solo dimenticare, capisci?”. Come potevo dirgli di no? Loro avevano preparato il carnevale più bello del mondo e noi avevamo rovinato tutto, non ottenendo niente. Avevamo un titolo, ma cosa importava in confronto a tutta quella tristezza”? Il calcio ha regalato storie infinite e alla vigilia del prossimo campionato mi illudo di poter fare una considerazione ai giocatori: ricordate che siamo solo noi tifosi e voi. Niente presidenti, niente procuratori, niente allenatori, niente giornalisti, niente glamour a circondarvi(loro non esistono). Solo noi e voi, e niente altro. Onorate il calcio riappropriandovi di esso, se potete, e resterete nella storia di chi vi ha visto e dei loro discendenti. Non conta niente altro. Fidatevi.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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