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Swedish diplomat Ragnar Kumlin (left) shaking congratulating author Albert Camus for his Nobel Prize in Literature award, at the Swedish Academy, October 17th 1957. (Photo by Keystone/Hulton Archive/Getty Images)
“La vera disgrazia è
Non saper amare”
Albert Camus
“Abbiamo sempre detto che non si può vincere ogni anno se non con gli imbrogli”, ha detto con il suo solito fare censurabile e lapidario Aurelio De Laurentiis, praticamente dando dei rapinatori a tutti coloro riusciti nell’impresa di replicare l’anno seguente la vittoria del campionato. Sovente mi chiedo perché mi ostino ad amare il calcio e quale sia il motivo per il quale ogni volta mi incanto e sento battere forte il cuore per una idea tracciata su un prato verde, forse perché molti dei miei attimi di felicità li ho vissuti seguendo le vicende di questo straordinario gioco. Probabilmente ha ragione Albert Camus quando ci ricorda che “quello che conta tra amici non è ciò che si dice, ma quello che non occorre dire”, e non c’è niente come il calcio a stabilire un recinto solido di amicizia e affetto perché vissuti in un contesto dove non ci sono interessi ma solo amore quasi inspiegabile per una maglia. Lo scrittore francese amava il calcio perché lo aveva capito profondamente, come quando si perde a scrivere, in ne “Il Primo Uomo”, delle partite fatte tra compagni di scuola e senza arbitro, quasi un dono del cielo per imporre ai peggiori di rispettare e amare i migliori allievi della classe, perché il calcio prima di essere performance è una grande occasione d’incontro. Al giovane Jaques, il protagonista del romanzo, “nessuno aveva mai insegnato la differenza tra il bene e il male”, ma il calcio era stata la sua prima esperienza morale. “Distribuire il gioco, questo è il calcio”, scrive in un altro straordinario e immortale romanzo, “La Peste”, il Premio Nobel per Letteratura del 1957, sottolineando intrinsecamente l’importanza di dare un minimo accesso a tutti alle cose del mondo. Lo stadio è come un luogo di culto, tutti vi possono accedere senza distinzioni sulle possibilità e sul censo, e sperare così di accedere al mistero e alla bellezza. La salvezza è onnicomprensiva, anche a quelli che non considerano la possibilità di dovere essere salvati. Soprattutto a questi ultimi. C’è fame di libertà e dignità nel cuore dell’uomo, quel tipo di fame “regalata e soddisfatta” in quei 90 minuti in cui si spera, si soffre, si gioisce e si partecipa insieme. Il calcio ha la capacità di parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo, costretti ad essere residui di umanità nelle più marginali periferie del mondo.
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A Lagos come nella più remota provincia della Cina, dove non capirebbero quasi nulla dell’evoluto eloquio dell’abitante di Shanghai, il pallone esprime concetti comprensibili e di partecipazione comune alle vicende del globo. Lo sport più seguito al mondo per molti è quasi una forma si estraniamento dalla realtà, un oppio al quale abbeverarsi al fine di stordirsi e accettare così la sfiga di essere precipitati nell’esistenza. Lasciatemi dire come sia così maledettamente fuorviante tale giudizio, questo voler stolidamente confinare gli amanti del gioco nella categoria della circonvenzione di incapaci, dimenticando il tumulto di emozioni ogni qual volta si gonfia una rete: speranza realizzata, speranza di dover ribaltare quel gonfiore. La vita ogni volta ricomincia. Si dovrebbe essere più cauti con le nostre sentenze e dare retta al mio amatissimo Osvaldo Soriano, convinto come il calcio sia un cartone animato per adulti e capire come “basta aver visto Stanlio e Ollio salire sulla cuccetta di un treno per sapere che la vita non è semplice”. Seduto ogni volta a vedere il mio metafisico Toro ho la sensazione piacevole di non essere solo, riesco a sentire il calore dell’abbraccio dei miei fratelli e delle mie sorelle in tifo, e ciò mi fa resistere alla tentazione di dire addio al mondo. Chi ha vissuto tanto sa come la resa al cinismo si sovrappone sempre di più alla speranza ogni giorno in cui il tempo si accorcia. Ti chiedi per cosa hai vissuto, vai alla ricerca di un motivo valido per i tanti affanni a cui ti sei sottoposto e ti continui a sottoporre. Leggi le dichiarazioni leggere e superficiali di De Laurentiis e la tendenza è quella di lasciarsi andare ad “è vero, sono tutti cialtroni. E’ tutta una commedia per fare soldi, e i giocatori sono mercenari: andate tutti a quel paese, al calcio avete sottratto il cuore ed io sono rimasto senza cuore”. Ma poi… poi ti volti verso la fotografia incorniciata del “Grande Torino”(sempre con te. Ovunque vai, ovunque scrivi), poi ripensi al “niet” di Buongiorno all’Atalanta per rimanere con la maglia del suo cuore, poi ti ritorna in mente l’immagine del viso di Duvan Zapata rigato da una lacrima per l’emozione alla fine di una partita da resurrezione, e allora decidi di non mandare tutti a quel paese ma solo De Laurentiis e tutti quelli come lui, incapaci di accettare le regole e la bellezza del gioco. Le parole sono come pietre, vanno a toccare i sentimenti e rimangono in circolo nel sangue e nei neuroni, e possono togliere ogni vestito al sogno lasciandolo nudo e privo di dignità. Le parole sono un segno e segnano, non gol ma anime. “Mi ricordo i tempi in cui abbiamo cominciato a rotolare insieme, la palla e io. E’ stato su un prato a Rio Cuarto de Cordoba dove ho scoperto la mia vocazione di attaccante”, c’è tutto in questo brano di Soriano, leggendo e rileggendolo scopri il senso di una vocazione, dell’importanza di un luogo, del tempo trascorso in un altro tempo, la volontà del rapporto tra soggetto e oggetto. I grandi narratori questo sanno fare. Vorrei dire come il calcio, questa grande intuizione regalata da Dio, ha come vocazione quella di far partire tutto dai campi polverosi per giungere ad illuminare i piani alti, illusi dal poter essere satolli di soddisfazione dal loro essere griffati in ogni centimetro quadrato. Vale la pena, oh se vale la pena, rubare attimi di vita per qualcosa che apparentemente promette qualcosa di pretenzioso, ovvero attimi di gioia e felicità. Al fischio finale dei fatidici 90 minuti ogni popolo è lì per le strade delle città a festeggiare non il risultato, ma la gioia di essere insieme agli altri a scambiarsi abbracci, sorrisi, parole ebbre a rimanere nel tempo e nella memoria.
La Grande Ungheria di Puskas ed Hidegkuti nel 1953 espugna Wembley per la prima volta nella storia del calcio, e il regime comunista da il permesso di illuminare le strade di Budapest, di solito costipate nell’oscurità notturna della frugalità socialista: il calcio ha fatto anche questo. Peter Handke, un altro(seppur controverso) Premio Nobel per la Letteratura, trova ispirazione dall’angoscia del portiere prima di ogni calcio di rigore per scrivere uno dei suoi più celebri romanzi, dove la solitudine esistenziale dell’impossibilità di capire da dove arriverà l’attacco domina sovrana. Gli attimi prima di un calcio di rigore sono di un’attesa vibrante per un portiere: sarà gloria(rigore parato) o scontata normalità(rigore segnato)? Crescere e lottare e non sentirsi perdenti ma protagonisti della partita del giorno dopo, tale è il mistero piacevole di un gioco nato per la parola molto più che per il gesto. “Non capisco di sport quanto l’incarico richiederebbe, ma so inventare storie bellissime” soleva dire l’autore di “Triste, Solitario y Final”, ed è appunto la storia bellissima il vero scopo del calcio, un tango ballato anche quando il “Corralito” ti sta togliendo tutto, persino i 50 dollari per comprare una bombola di ossigeno senza la quale saresti morta in poche ore. Anche quando i campi di calcio de “La Peste” di Camus sono diventati lazzaretti di fortuna e tu non smetti di vederci in essi le trame del tuo amatissimo gioco. Confesso di amare del calcio anche quello che ancora non ho capito, e forse non capirò mai, ma quando mi presenterò davanti al mio Creatore lo ringrazierò di avermelo dato come una possibilità di bellezza da carpire e conservare. “La lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo” scrive Camus, e ogni volta che comincia un campionato, ogni volta che ricomincia una giornata, ogni volta che ci guardiamo con onestà davanti ad uno specchio, in quella lotta ci ritroviamo. Ma tutto ciò uno come Aurelio De Laurentiis non potrà mai capirlo. Mi verso un bicchiere si “Amaro del Capo”, porto indietro lo schienale della mia poltrona, mi volto verso la fotografia incorniciata degli “Invincibili” e alzo il bicchiere per un brindisi: “grazie miei fratelli e mie sorelle granata. Grazie di esserci. Vi sento e vi abbraccio tutti, e in ogni luogo e in ogni tempo vi riconoscerò. In questo momento ho la percezione che non sarò mai da solo, ho la certezza che non conoscerò mai l’esilio”. Prosit e alla prossima.
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