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Le inquietudini del calcio da Di Lorenzo a Juric

Le inquietudini del calcio da Di Lorenzo a Juric - immagine 1
Torna l'appuntamento con 'Loquor', la rubrica di Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“Un bicchiere di talento in

                                                                                      un mare di ambizione”

Mick Jagger

 

In questi giorni mi è sovvenuto un celebre aforisma, talmente veritiero e graffiante come tutti gli aforismi di genio da obbligare ad allargare gli orizzonti di una riflessione. “I dilettanti costruirono l’Arca, mentre il Titanic fu costruito da dei professionisti”, da esattamente l’idea cosa a volte ci possono riservare dei curriculum ben venduti, degli studi apparentemente ben strutturati, la voglia insita dentro ognuno di noi di cercare la sicurezza per stare lontani dai fallimenti. Il professionismo questo fa: rassicura. Per il saldo di una parcella ben pagata, l’aspettativa è avere indietro qualcosa di solido, che corrobori ogni tipo di sogni, che allontani le maledizioni ricevute per le nostre debolezze. Il professionista sa quel che fa, visto come la promessa lo preceda con assoluta chiarezza, e non sarà certo una critica o uno schiamazzo sguaiato a farlo cadere dalla sua sicurezza. Ma pare che il calcio, negli ultimi tempi, stia letteralmente sovvertendo questa granitica convinzione. Giovanni Di Lorenzo, ad esempio, avrebbe rotto definitivamente con il Napoli perché “mortificato e ferito” da dei fischi piovuti sulla sua persona durante la sostituzione con Mazzocchi nell’ultima partita di campionato dei campani contro il Lecce. E mentre tu il giorno dopo stai riflettendo su una presunta fragilità di un campione che viaggia a 3,5 milioni di euro netti a stagione, ecco giungere la notizia di un forte interessamento della Juventus sul difensore toscano. In fondo, recitano quasi tutti i commenti, è stato Cristiano Giuntoli a suo tempo a portarlo all’ambra del Vesuvio e il tono pare proprio di quello da racconto da “libro Cuore” del potente dirigente bianconero in soccorso del cuore ferito di un suo ex  giocatore. La stampa napoletana, con inchino presidenziale, butta sul tavolo verde degli storytelling la carta vincente, e da giorni sta portando avanti l’epopea del povero Di Lorenzo un tempo volenteroso di finire la carriera al Napoli, ma ora asfaltato nell’animo dalla contestazione dei tifosi.

Tra le tante scuse che si possono inventare per interrompere il rapporto con un club, compendio immaginario realizzato a partire dalla “Sentenza Bosman”, quello delle offese dei tifosi a deturpare la sensibilità evoluta e profonda dei tesserati, si sta imponendo nel dibattito pubblico dello sport nazionale del nostro Paese. Noi cinici che fino ad oggi avevamo pensato come fossero i soldi e gli interessi a condizionare pesantemente il mercato dei calciatori e degli allenatori, noi praticoni e maldestri epigoni di Sigmund Freud e Carl Gustav Jung a fare analisi sul vorticoso e aggressivo incedere delle ambizioni umane, noi sul serio convinti della capacità del professionismo di incidere e non di essere inciso, ci si sta dovendo ricredere sulla condizione assai fragile di una innocenza ferita di un calciatore e di un allenatore. I tifosi, quelle bestie senza anima, quei cuori ingrati senza memoria, sono capaci di distruggere i sogni e le aspettative di una persona nei pochi secondi di una sostituzione. Capita come anche uno tosto dall’aria di Bruce Willis nella saga “Die Hard-Duri a Morire”, al secolo Luciano Spalletti, lasci Napoli dopo la vittoria di uno scudetto perché stressato dalla dirigenza, dalla città, da un ingombrante presidente. No, meglio godersi come Lucio Quinzio Cincinnato i piaceri dell’impresa agricola di famiglia per un anno, e poi semmai riprendere di andare per panchine. E tu gli credi intensamente, non vuoi fare il malfidato o il solito retroscenista da bar, si sa come sia a volte fragile l’animo umano, così incline ai fiori e alle margherite di campo.

“Non bisogna mai avere paura di mostrare la propria fragilità, avere pudore per la sofferenza, che accomuna tutti gli esseri umani”, scrive Giovanni Allevi, e se pensi a ciò il cuore si stringe e pensi a quanta fatica abbia fatto Spalletti a raccogliere le sue poche e povere cose portate con se a Napoli e ritirarsi stressato e contrito nelle campagne toscane. “Sono fragile”, sembra dire il cranio lucido dal ricordo di una presenza tricologica e ora madido di sudore, e tu, sospinto da una stampa pronta ad andare in soccorso a questi emarginati contemporanei, alla fine gli credi. Non puoi non credergli, la pena sarebbe quella di costringerti a confinarti nel tuo cinismo da tifoso stronzo. “Toccami, piano piano sono un fiore fragile/che libera un profumo dolce e amabile/se mi raccogli tutto finirà”, canta Biagio Antonacci, e la Federazione Italiana Gioco Calcio subito lo prende in parola (si sa come il ponentino romano faccia viaggiare nell’aria rime e suggestioni), e va a chiamare Spalletti chinato su aratro e buoi, ma ancora contrito nell’animo per lo stress subito all’interno del limes partenope. Aurelio De Laurentiis si fa girare un po’ le balle e prova a ricordare a questo contadino dall’animo gentile prestato al calcio come esista un contratto in essere, in teoria ostacolo insuperabile per andarsi a sedere sulla panchina della Nazionale, “e poi sei stressato, non vorrai mica stramazzare al suolo nei campi verdi del Centro Tecnico Federale di Coverciano”? La sintesi della risposta spallettiana proviamo a farla con qualche licenza poetica, sperando sia passibile di perdono: “del contratto che mi lega ancora al Napoli me ne fotto, e l’aratro nel frattempo ha ripreso il mio cuor e ha ridato nuovo vigore all’animo”. Le cose nell’animo e nel fisico cambiano in fretta, e per una montagna di euro la disponibilità di dimenticarsi di una fastidiosa allergia alla sabbia può tutto e allora giocare tra le dune non è più un incubo. Anche due milioni di euro netti l’anno per tre anni devono essere un buon viatico per dimenticarsi di essere forse stati troppo presi dalla suggestione dell’enormità dell’emolumento al momento della firma del contratto, per immaginare nozze in seguito fatte con dei fichi secchi.

Certo esisterebbe la “Sacra Rota” per annullare un matrimonio avvenuto attraverso un para inganno, ma Ivan Juric  deve essere giunto istantaneamente alla conclusione come sei milioni di euro netti valgano bene tre anni di “Cayenna” cairota. Dotato di ego smisurato ha scelto di perseguire la strada del cornuto senza però essere mazziato. Ed eccolo sparare a cicli regolari bordate, declinate e sottintese in vari modi, sulla scarsa qualità della rosa, sull’incapacità di Davide Vagnati di scoprirgli giovani talenti da sgrezzare, di un Urbano Cairo non sostenuto da sufficiente ambizione. Un racconto portato avanti nei primi due anni di contratto e confortato dall’appoggio dei tifosi perché corrispondeva, e corrisponde, alla realtà dei fatti concreti. Urbano Cairo è notoriamente persona dalle ambizioni, diciamo, misurate e Davide Vagnati non è certo noto per le sue doti divinatorie di mercato. La volpe di Spalato soffre ma non si dimette, due milioni di euro netti l’anno sono un ottimo cuscino su cui addormentarsi serenamente la sera. E poi ha indiscutibile talento, quindi nel deserto da deflagrazione postatomica trovato al suo arrivo in Granata, ha la capacità di ricostruire una identità di gioco alla squadra. C’è naturalmente da essere orgogliosi dal lavoro fatto, ma il piano fattosi largo nella mente della Volpe di Spalato è chiaro: i rapporti con Urbano Cairo si sono ormai deteriorati (uno non gli perdona di essere stato preso semplicemente come foglia di fico per coprirsi davanti alla montante contestazione dei tifosi, l’altro non gli perdona e non capisce come si possa essere così ingrati di fronte a due milioni di euro netti l’anno pagati regolarmente), ed è chiaro come nel terzo anno di un contratto ormai in scadenza bisogni trovare un scivolo drammaturgico credibile per uscire bene di scena davanti agli occhi del mondo. Quest’ultimo deve ben comprendere il grande lavoro fatto al Toro, e il perché si lasci senza nemmeno a provare a discutere con Cairo un prosieguo.

La cosa, lasciata senza drammaturgia, sarebbe solo un ossimoro indigeribile. La Volpe di Spalato, come una vera volpe consumata, aspetta una vittoria ad effetto, quella contro il Milan, per sparare la sua strofa letteraria immortale nell’affollato etere dell’infodemia sportiva: “me ne vado perché non c’è amore”, dice davanti ai microfoni di Sky. I tempi in drammaturgia sono tutto e pare che all’interno della “Holy Trinity Church” di Strafford –upon-Avon a quel punto si sia sentito distintamente un applauso provenire da luogo dove riposa William Shakespeare. Il calcio è tirato nel basso ventre di Urbano Cairo e la colpa viene scaricata sui tifosi poco innamorati della squadra, così come la nuova moda impone. Mentre vorrei urlare tutto la mia disapprovazione a Cairo, De Laurentiis, Juric, Di Lorenzo, Spalletti e affini, mi giunge un messaggio: “con 43 tifosi del Toro abbiamo scritto e firmato una lettera di ringraziamento per la magnifica stagione fatta e l’abbiamo inviata alla squadra”. Poso il telefono sulla scrivania e il pensiero mi va ad Anthony Weatherill. Aveva ragione lui, i tifosi sono l’unica cosa da salvare del calcio contemporaneo. La prossima stagione saranno ancora lì, e io con loro, a seguire trepidanti le gesta di questo magnifico e infinito gioco. Non so se amore o patologia, ma per me i tifosi presenti sulle gradinate di uno stadio sono l’abbraccio di una storia, e la cosa mi fa battere ancora il cuore.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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