“Se tutti faranno il loro dovere, ancora
columnist
Le scarpe e i passi di Arpad Weisz
una volta difenderemo la nostra Isola”.
Winston Churchill
Lo scoppio della II Guerra Mondiale sorprese mio padre Bob giovane militare di leva, trasformando un periodo da lui considerato transitorio e in qualche modo pacifico in un incubo bellico, dove in gioco c’era anche la sua vita, che si trascinò fino al 1945. Non amava molto parlare della sua esperienza in guerra, ma quelle rare volte che capitava in lui si manifestava una rabbia mista a malinconia, per aver lì perso in modo altamente drammatico gran parte della sua gioventù. Bambino e adolescente, e quindi in totale empatia con i sentimenti espressi da Bob sull’argomento, giunsi a detestare Winston Churchill, reo di aver trascinato il mio Paese in una guerra da me ritenuta evitabile giungendo ad una pace onorevole con il potere nazista. Ovviamente era stata la malinconia di Bob ad avermi fuorviato, a non avermi fatto comprendere il perché il nostro allora Primo Ministro avesse scelto di continuare a combattere senza esitazioni. Crescendo, quindi conoscendo la storia del mondo e il mondo, compresi bene, come prima o poi capita ad ogni inglese chiamato a partecipare a questa vita, il perché la Patria intera andò a recuperare sulla spiaggia di Dunkerque tutto ciò che poteva del corpo di spedizione del nostro esercito di stanza in Francia: si doveva assolutamente continuare a combattere, a costo della fine del nostro Impero. A costo della fine della nostra Isola. Ma per cosa la generazione di mio padre aveva combattuto? Perché, per continuare a combattere, contraemmo debiti finiti di pagare sotto il governo Margaret Thatcher e accettammo di perdere l’Impero? Una delle risposte che mi sono dato a queste domande prende vita a Solt, un piccolo centro dell’Ungheria meridionale, in un giorno di primavera del 1896. Arpad Weisz, figlio di Lazzaro e Sofia, viene al mondo in una delle più grandi comunità ebraiche europee. Oltre settecentomila sono gli ebrei presenti in tutto il territorio magiaro, e sono lì da secoli, operosi e con una loro identità ben precisa. Questo non impedisce al giovane Arpad, allo scoppio della I Guerra Mondiale, di lasciare la gloria che stava raccogliendo come calciatore nella prestigiosa squadra del “Torevkes”, per arruolarsi come volontario nell’esercito austro-ungarico. Torevkes, nell’arcaica e misteriosa lingua ungherese, si traduce in italiano in “sogno ad occhi aperti”. E fu lì che Arpad Weisz cominciò a cercare bellezza attraverso le evoluzioni da “ala” che serviva palloni invitanti a Ferenc Hirzer, uno dei migliori attaccanti europei di sempre. Il 28 novembre del 1915, Arpad venne catturato dagli italiani sul fronte dell’Isonzo e internato a Trapani. Fu lì, probabilmente, che il Nostro cominciò a prendere confidenza con la lingua italiana e ciò, più avanti, si rivelerà cosa molto utile per consentirgli di venire ad allenare in Italia. Al rientro a casa, finita la guerra, Arpad riprese a giocare nel Torevkes, che lasciò nel 1923 per raggiungere Hirzer nel “Maccabi Brno”, un’autentica squadra di stelle richiesta a giocare in ogni angolo d’Europa. Il Maccabi Brno faceva parte di quella catena di polisportive ebraiche, nate soprattutto nella Mitteleuropa ed erroneamente, almeno a mio parere, collegate alle idee del sociologo e medico ebreo Max Nordau, che vedeva nello sport una possibilità di perfezionamento fisico della gioventù ebraica desiderosa di sposare la causa degli obiettivi sionisti.
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La realtà, credo, debba invece rintracciarsi in un’evoluzione da vetrina (epos) mondiale che lo sport comincia ad avere sin dagli inizi del primo novecento, e che anche la comunità ebraica vedeva sempre più come un momento di aggregazione e di orgoglio comunitario. L’avventura di calciatore di Arpad Weisz termina due anni dopo, dopo dieci partite giocate con l’Inter, a causa di problemi fisici non risolvibili. Ma il club milanese non lo abbandona e lo promuove allenatore della prima squadra. Farà esordire nella massima serie Giuseppe Meazza, probabilmente il più grande calciatore italiano di tutti i tempi, ma viene esonerato l’anno seguente a causa di un deludente settimo posto. Ma Arpad Weisz faceva parte di quella grande onda lunga calcistica ungherese, che regala talento e bellezza per grande parte del novecento fino alla Grande Ungheria di Puskas. Uno così non era passato certo inosservato all’Inter, che due anni dopo, nel 1929, lo richiama di nuovo alla guida della prima squadra, portata alla vittoria dello scudetto. In quel momento Arpad ha solo 34 anni, ed è tutt’ora il più giovane allenatore ad aver vinto il massimo campionato italiano. Subito dopo dà alle stampe il “Giuoco del Calcio”, un manuale fondamentale per comprendere quello sport da lui tanto amato, di cui l’allenatore magiaro riesce a delinearne persino l’anima. C’è la storia, il romanticismo e la passione di chi ha reso grande il calcio, e che delineano il carattere di un allenatore pronto a rendere ancora più stupita un’Italia sempre più coinvolta dagli avvenimenti svolti in un rettangolo verde. Infatti a partire dalla metà degli anni 30, Arpad Weisz mette le fondamenta di quel famoso “Bologna che tremare il mondo fa”. Arpad, introducendo un mix di gioco tra scuola danubiana e una ricerca di una fitta trama di passaggi, porta il suo Bologna a spezzare il dominio della Juventus dei quattro titoli consecutivi, vincendo i campionati 35/36 e 36/37 e portandolo in cima al mondo vincendo il Torneo Expo, battendo nella finale di Parigi il Chelsea il 6 giugno del 1937. La fama del tecnico di Solt è ormai giunta al suo apogeo, tutti, in Italia e nel mondo, ne ammirano il genio. E nonostante il campionato 37/38, vinto dall’Inter, sia stato vissuto in maniera altalenante dal club felsineo, ai nastri di partenza della Serie A nella tarda estate del 1938, tutti sono convinti che Arpad Weisz compirà un altro capolavoro con il suo Bologna. Ma questa non è la trama di una favola a lieto fine, questi sono gli anni 30 del “Der Mythus des 20” di Alfred Rosenberg e del “Mein Kampf” di Adolf Hitler, due libri scellerati assurti a terribile prodromo dell’Olocausto che dovranno subire gli ebrei in tutta Europa. Nel settembre 1938 l’Italia promulga le “Leggi Razziali”, e l’ebreo Arpad Weisz il 23 ottobre dello stesso anno è costretto a dimettersi dalla guida tecnica del Bologna e a lasciare precipitosamente l’Italia. Dopo varie peripezie giunge a Dorderecht, un città dell’Olanda meridionale, e al più grande allenatore del mondo, in quel momento disoccupato, viene offerta la panchina della locale squadra di calcio, con una rosa di giocatori composta tutta da studenti.
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Il primo anno Arpad porta il Dorderecht ad una insperata salvezza, il secondo anno lo fa piazzare al quinto posto della “Eredivisie”, il massimo campionato olandese. Il Dorderecht non raggiungerà mai più un simile risultato. Ma questa, come si è detto, non è una storia a lieto fine, e nel 42 i tedeschi invadono l’Olanda. A quel punto le leggi razziali portano all’espulsione dei figli di Arpad dalla scuola e impongono al tecnico magiaro il divieto di lavorare. E’ l’inizio di una fine che troverà il suo epilogo ad Auschwitz, dove la moglie i figli di colui che fu l’allenatore più grande e creativo del mondo trovarono immediatamente la morte. Arpad cessò di vivere nel gennaio del 1944, tra stenti e atroci sofferenze. Chissà se in quegli ultimi momenti avrà trovato conforto nell’immaginare, ancora una volta, la bellezza delle traiettorie di quel gioco che aveva tanto amato. Già, la bellezza… quanta bellezza ci è stata portata via impedendo a quelle milioni di persone che persero la vita nei campi di sterminio, di continuare pacificamente le loro esistenze. Chissà cosa ci avrebbe regalato ancora Arpad Weisz, stupendo di visioni ardite tutti gli amanti del calcio. Il bellissimo memoriale “Le Scarpe sulla riva del Danubio”, istallazione collocata sul LungoDanubio di Budapest, ci ricorda visivamente, e in modo struggente, come alle vittime dell’Olocausto hanno portato via non quello che avevano già dato, ma quello che avrebbero potuto dare. Un qualcosa di irrecuperabile nella storia del mondo. Diventato adulto ho compreso quanto sia importante lottare per impedire l’avvento delle condizioni di un triste rammarico, ho interiorizzato definitivamente perché l’Isola, per bocca del suo Primo Ministro, dichiarò in quel fatidico 4 giugno del 1940 “noi non ci arrenderemo mai”. Un giorno, capitato casualmente in visita al cimitero dei caduti inglesi nel corso dello sbarco di Anzio, di fronte a quel filare di tombe di giovani (troppo giovani) uomini recanti nomi a me familiari, mi venne di guardare il cielo, per rivolgermi ancora una volta a mio padre: “ehi, Bob! Devi sapere che hai fatto bene a combattere. Ma proprio bene, sai? E volevo anche dirti una cosa che, per pudore, non ti ho mai detto: grazie”. Si abbia sempre cura del tempo che verrà.
Di Anthony Weatherill
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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