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L’imperfezione del calcio

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Torna l'appuntamento con Loquor: "Le persone perfette non combattono, non mentono, non commettono errori e non esistono”

“La perfezione è difficile

                                                                           da amare”.

Richard Yates

“Non esiste un solo motivo, neppure uno, perché un giocatore stia fermo. Il calcio è movimento, il calcio è correre smarcarsi”. In queste parole di Marcelo Bielsa, a scandirle per bene, c’è qualcosa che spiega il calcio esattamente come parabola della vita. In queste parole, dal carattere categorico, si può individuare facilmente anche il loro contrario, ed è proprio in questo loro capovolgimento a sostanziarsi il grande fascino del football, il suo essere il gioco più seguito al mondo, il suo essere definito persino il più bel gioco del mondo. E per larga distanza. Le parole dell’allenatore più pazzo, e forse più bravo, del mondo confluiscono nella grande scelta disponibile ad ogni persona: correre o stare fermo. Ci si trova di fronte all’esercizio della libertà, dove addirittura si può scegliere se attaccare o difendersi per provare a vincere. Nessun altro sport offre questa opportunità, nessun altro gioco da al più debole una così concreta possibilità di vincere. Tutto, nello scorrere del calcio, assomiglia alla volontà del “Creato”, che ci vuole lottatori e creativi, e all’occorrenza capaci di ricordare la genesi di ogni cosa. Si viene da così lontano, eppure anche da così vicino, come un lancio di quaranta metri di un pallone che, ricadendo su un piede addestrato, porta direttamente in porta, forse attesi dal godimento o forse attesi dal rammarico. Quel pallone arrivato da quaranta metri e anche di più, sovente non lo si è visto nemmeno partire, ma si sa come sia stato recapitato da chi certo vuole provare a far vincere il suo destinatario. Quei quaranta metri percorsi dal pallone sono l’eco degli antenati, e non importa se di loro non si hanno né foto, né ritratti. Quel pallone è segno visibile di come essi abbiano lottato per noi. La vita, con il suo mistero, penetra il calcio e lo rende metafora di ogni cosa noi si decida esso sia. Per questo motivo il calcio è della gente, per tale ragione lo sentiamo nostro.

Essere liberi non è questione filosofica o retorica, ma pura realtà sintattica dell’esistenza. Siamo liberi prima di aver dato all’agire qualsiasi tipo di significato, venuti al mondo spinti non solo da una contrazione vitale materna, ma anche da un formalismo insito nella maternità che è precondizione di qualsiasi cosa, rappresentazione inequivocabile che abbiamo la vita perché previsti liberi. Il rugby ti costringe ad andare in avanti insieme, la pallavolo a finire l’azione entro tre passaggi, la pallacanestro alla gabbia temporale di trenta secondi in cui un attacco deve finire e al non poter tornare indietro nella propria metà campo. Non sono sport, sono stati etici in cui scompare quel processo alla libertà iniziato non appena si è abbandonato l’utero materno. Una squadra di calcio può arretrare davanti alla sua porta, e aspettare l’idea giusta per vincere. Non c’è nulla di disonorevole in ciò, lo fece anche Quinto Fabio Massimo il “temporeggiatore”, che invece di affrontare in campo aperto Annibale, decise di “stancarlo” evitando di ingaggiare con lui battaglia. Sarebbe venuto, prima o poi, il tempo giusto per vendicare ed onorare gli 80.000 legionari caduti a Canne, probabilmente la più disastrosa sconfitta militare di tutta la storia di Roma. C’è un momento in cui ascoltare e tacere è tutto quello abbia senso fare, visto che ascoltando e tacendo si ha la possibilità di vedere. Parlando si impedisce agli occhi di agire, e se nel calcio si attacca continuamente la prima cosa a perdersi è proprio la vista, perché è esattamente come se si continuasse a parlare senza soluzione di continuità.

Quando ci si mette in difesa ci si costringe a guardare gli altri mentre cercano la perfezione in modo forsennato. I tiri, la ragnatela di passaggi, la supremazia territoriale sono erroneamente scambiati come una ricerca della bellezza. Essi, in realtà, sono una ricerca disperata di un’idea di mondo perfetto, già sconfitta ai tempi della “torre di Babele”. La libertà ti mette nella felice posizione di essere mentalmente libero di scegliere di essere imperfetto sin dal nastro di partenza, e quindi in condizione di mettersi a cercare l’unica cosa che vale la pena di trovare: la bellezza. E la bellezza è possibile solo nell’imperfezione, come quando la mano di Diego Armando Maradona si alza sotto un cielo messicano e infila la porta di un incredulo Shilton con il più famoso gol di mano mai esistito e che mai esisterà nella storia del calcio. Nella stessa partita arriva poi il “gol del secolo”, ovvero un elettrico slalom di Maradona tra non si sa quanti giocatori inglesi, con Valdano e Burruchaga, spettatori privilegiati e divertiti, a correre affianco al “Pibe de Oro” non nella speranza di vedersi recapitato il pallone(i due, più di ogni altro, avevano capito come la corsa del più grande dieci di ogni tempo sarebbe finita nel fondo della porta inglese), ma per nominarsi testimoni imperituri del miracolo a cui tutto il mondo stava assistendo. E mentre a Buenos Aires tutto era “tango” e “mate” consumato a fiumi, Maradona, candido, dichiarava che “con un’altra squadra non sarei mai riuscito a fare quella corsa. Mi avrebbero buttato giù prima. Gli inglesi sono probabilmente i più nobili del mondo”. Quel giorno, infatti, gli inglesi rifiutano la perfezione da manuale del calcio, che in quei casi consiglia di buttare giù il fuoriclasse una volta ci si accorge come abbia preso un abbrivio pericoloso. Gli inglesi esercitano liberamente la loro imperfezione e pagano dazio, ma consentono alla bellezza di sprigionarsi. Tutto ormai pare essere guidato da un manuale partorito da chissà quale mente e scritto da chissà quale mano, e se il manuale dice che bisogna, prima dell’inizio di una partita, mettersi in ginocchio per manifestare contro il razzismo, allora bisogna farlo senza se e senza ma. Il conformismo della perfezione non permette un dubbio, e non prevede un’alternativa a se stesso, infatti non può accordarsi minimamente con il calcio, se non per una conclamata e quasi ridicola forzatura.

Un tempo il rettangolo verde di uno stadio era il regno di ogni tipo di libertà, un invito a provare e ancora a provare, perché non ci si può arrendere di fronte ai propri limiti e alle proprie miserie. Non è stato previsto da Dio, se ci crediamo, e non è stato previsto nemmeno dal caso e dal suo caos creativo. Mentre undici giocatori sono assediati da altri undici giocatori chiaramente più forti,  è la storia ancestrale dell’uomo ad andare in scena, con i suoi “se”, con i suoi “ma”, con le sue “certezze”. Lo si può notare in questi giorni  europei di calcio, dove i volti dei giocatori esprimono l’emozione più inspiegabile: l’appartenenza. Non ci sono sponsor, non ci sono procuratori, non ci sono contratti a condizionarli e, soprattutto, a determinarli. Laddove riposano i cuori dei loro padri e delle loro madri, lì va il pensiero; quei padri e madri imperfetti, contraddittori, deboli, ma che ci hanno portato fino a qua, nel nostro tempo. Sabato l’Italia affronterà l’Austria, il Paese di Mathias Sindelar, uno dei più grandi calciatori di ogni tempo. Poteva essere corrotto da nazismo, poteva diventare un dio in terra, ma se ami il calcio, se lo hai compreso veramente, comprendi subito da quale parte devi stare, anche se il tuo percorso finisce dentro una stanza d’albergo ammazzato dalla Gestapo. Non era perfetto, Sindelar, ma al momento giusto ha saputo smarcarsi, e ha rifiutato la perfezione offerta da uno Stato etico. Marco Rossi è riuscito a fare emozionare gli ungheresi come non succedeva dai tempi della “Squadra d’Oro” di Puskas, Kocsis e Hidegkuti. Non ha vinto, ma ha riproposto il valore del resistere, dell’attendere un momento migliore, perché anche questo è il calcio. Anche questa è la vita. Uno sport così solo in Europa poteva nascere e svilupparsi, e gli americani, figli della cultura iper competitiva, non potranno mai capirlo nella sua essenza. Si stia attenti alla società dei perfetti, alla robotizzazione dei sentimenti, allo spingere un tasto per sapere da un algoritmo le prospettive del nostro futuro, all’utilizzo dello sport per fini ideologici. Si stia accorti a non far arrendere il calcio al concetto di spettacolo, dove tutto è apparentemente depurato e perfetto. Auspico Robin Hood possa avere ancora la possibilità di derubare il Principe Giovanni, e vorrei ancora Maradona e il suo gol di mano. Si respinga la logica del Var, e si salvi la libertà di scegliere di resistere. “Le persone perfette non combattono, non mentono, non commettono errori e non esistono”; cosa si può aggiungere a questa bella considerazione di Aristotele? Direi niente. Buon calcio a tutti.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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