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L’insostenibile leggerezza del calcio

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Torna Loquor, la rubrica a cura di Carmelo Pennisi, con un nuovo appuntamento: "L'Europeo, un non spettacolo, che se non fosse per il pathos sugli spalti sembrerebbe una kermesse di nazionali in tournee"
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“La felicità è desiderio di ripetizione”

Milan Kundera

Sembra una versione stanca di “Ferie d’Agosto” di Paolo Virzì l’Europeo di calcio in corso, vissuto come un cliché da verificarsi ad ogni costo per esigenze di un copione sempre più inzeppato di appuntamenti da offrire in pasto alle tv. Lo spettacolo è un non spettacolo, e se non fosse per il pathos di nazionalismi ritrovati sugli spalti degli stadi forse il tutto sembrerebbe una kermesse di nazionali in tournee negli Stati Uniti a tentare di propagandare un gioco complicato da far andare giù a chi del baseball e del football americano ne ha fatto una via di mezzo tra un sacro dimenticato e un nuovo spot commerciale da consumare.

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I giocatori appaiono spompati da stagioni congegnate per renderli particolarmente l’ombra di se stessi in un mese in cui vorrebbero essere a Formentera a godersi i tanti soldi guadagnati in mare ed eventi mondani, invece di stare a correre dietro ad un pallone in un prato verde. Certo ci sono gli inni nazionali e i canti dei tifosi a riempire di suggestioni almeno i prodromi delle partite, e se anche uno come Artem Dovbyk, stella del Girona dell’ultima stagione della Liga, appare la sbiadita copia di se stesso, niente toglie alla grande suggestione emotiva del muro giallo presente sugli spalti. Sono momenti di drammatica emozione, in cui la guerra che si sta combattendo nel cuore dell’Europa ti si spiaccica davanti appena finito di cenare, e magari vorresti distrarti un po’ con il calcio scacciando ogni cattivo pensiero. Ma non si può, lo sport del calcio è vita che si incrocia con la vita di tutti giorni e con echi apparentemente lontani, ma in realtà così vicini. C’è comunque apatia da calcio, nonostante si cerchi qualche suggestione per il mercato calciatori in corso ma ancora privo di botti significativi. Soldi sembrano circolarne pochi, e tutti aspettano tutti, poiché prima o poi ci sarà il fesso di turno ad aprire il portafogli e a dare il via alle danze.

È una estate piena di sport, con offerte varie dove quella delle Olimpiadi pare quella più attesa, probabilmente a causa della sua natura diversa da parentesi quadriennale. Le Olimpiadi danno ancora il senso dell’appuntamento unico nel suo genere, del treno difficile da acchiappare a causa della rarità dei suoi momenti. Un atleta in auge ha in genere due possibilità in carriera per massimizzare il suo talento e i suoi sacrifici in una medaglia. Ciò aumenta il pathos negli spettatori, considerato come la cosa assomigli al filo di un equilibrista che corre da una alta torre all’altra. La gloria e il dramma sono lì a fare da capolino, in attesa dell’evento storico da raccontare. La Francia sta preparandosi all’evento con tutta la sua ansia da “grandeur”, ed è singolare come le due locomotive d’Europa, l’altra è la Germania, quest’anno siano ospiti di importanti eventi sportivi. I focolai di crisi mondiali hanno riportato al centro la loro rivalità, in una Europa che dovrebbe essere unita, ma al momento mai così divisa.

Intanto gli sportivi gareggiano, il mondo delle pulsioni emotive del cuore non può mica fermarsi, e lo sport deve continuare ad avere la capacità di ispirare altri mondi possibili, magari più decenti e romantici. I tifosi delle nazionali si incontrano e festeggiano con fiumi di birra, e per un momento fanno pensare al calcio come vera lingua comune, visto come il sacro non abbia bisogno di traduzioni, esso è l’esperanto dell’anima che si collega al cervello passando per il cuore e rende improvvisamente tutto più chiaro, tutto più accettabile. L’Italia prova a specchiarsi alla ricerca dell’antica gloria, ma trova indigesto scoprire una debolezza mai avuta nel gioco più seguito al mondo. Pareggia all’ultimo secondo con la Croazia, dopo una prestazione a dir poco opaca e incomprensibile, e si esulta come se si fosse vinto, abbarbicati all’idea di aver forse trovato un giocatore di livello in Riccardo Calafiori. Il difensore del Bologna vuole compiere miracolo della disperazione e innesta una azione quasi solitaria, nella corsa ansiosa verso l’area croata commette l’errore di allungarsi troppo il pallone, che pare ormai perso nel nulla di tutta la prestazione Azzurra. In un afflato più mentale che fisico, Calafiori allunga la falcata con una spaccata da étoile della Scala e riesce ad arrivare a toccare il pallone in direzione di Zaccagni un attimo prima della fine di ogni mondo tra i piedi di due giocatori croati. Il resto è storia di cui difficilmente si parlerà non tra un anno, ma persino tra qualche mese.

Le analisi del post partita sono una via di mezzo tra lo sconforto e la speranza contenuta in ogni  miracolo, ma se un secondo dopo il fischio della fine del match con la Croazia è cominciata a circolare la paura per il mostro elvetico, prossimo avversario negli ottavi di finale, vuol dire che la crisi del calcio italiano è qualcosa radicato in un profondo dove ancora non siamo riusciti ad arrivare con la mente e con il discernimento. Ascolti una trasmissione Rai e il giornalista giunto a commentare le prodezze azzurre chissà per quale mistero contenuto nelle vie infinite e opache di Viale Mazzini, si inerpica in una analisi collocata tra l’assurdo e il surreale, la cui medicina finalmente si è trovata: abbiamo Luciano Spalletti accomodato sulla panca che fu di Vittorio Pozzo ed Enzo Bearzot, e considerato come l’allenatore conti più del 30%(mi chiedo quali siano i dati da cui il prode giornalista ha ricavato la sua percentuale) allora di sicuro siamo a cavallo con il tecnico di Certaldo: prima o poi con lui vinceremo. Al povero Marco Tardelli, che con il suo pedigree un buon motivo ce l’ha a stare in tv a commentar partite, quasi cadono le braccia dallo sconforto a sentire parole dalla sicumera ignota, e prova a ricordare come in campo ci vadano i giocatori e come un tecnico il più delle volte deve essere un aggiustatore di talenti e non un venditore di fumo non richiesto. Ma niente, corroborato da una giacca e cravatta di pregio in uso per dare importanza, il mistero certificato da Viale Mazzini è andato avanti con una elegia da “Cinque Maggio” di Alessandro Manzoni della figura dell’allenatore.

Mancano i campioni, simile a colui che tolse le castagne dal fuoco ad Arrigo Sacchi contro la Nigeria nel mondiale del 1994, dove il Divin Codino di Roberto Baggio mise in porta il pallone scaccia eliminazione umiliante, risolvendo una palese mancanza di gioco e di idee. Capita di avere questi periodi, e cercare di trovare una spiegazione razionale a un evento dipendente anche dalla mitica figura della “Cicogna”, è fatica improba in un dopo partita di uno stanco Europeo. Bisognerebbe recuperare umiltà, accettando la nostra attuale condizione di squadra media e quindi impossibilitata di fare del possesso palla un nostro credo. “Perifrasando” indegnamente Vasco Rossi (spero ci scuserà), si potrebbe dire come “la vanità ne ha rovinati più lui che il petrolio”, per cui dalla lucida testa di Spalletti escono solo parole ragguagliabili in “filosofia” e “progetto”, e se non ci va bene “forse dovevate prendere un altro, perché io non sono capace di allenare in altro modo che così”. Chissà, forse ha dato una idea interessante. Comunque c’è anche una percentuale di eventi, fate voi se sfortunati o fortunati, dove l’emigrazione costante a noi ha consegnato El Sharaawy e Mario Balotelli, e alla Spagna Nico Williams e Lamine Yamal. Nico Williams basco è uno di quei miracoli della lotteria del Mediterraneo, un mare intriso di drammi e di speranze, di echi di canti dei “muezzin” e delle campane della Roma papalina, un crogiolo storico di occasioni da cogliere. Con Mario Balotelli, posso sbagliare, ritengo si sia fallito culturalmente, perché se Yamal ha preso a modello la dedizione al lavoro e il carattere di Xavi e Balotelli l’indolenza pigra e “cafonal” di Antonio Cassano, forse c’è qualcosa nel nostro contesto valoriale/educativo da rivedere. Questione, e so di stare dando un immenso dolore al giornalista Rai sopracitato, da non poter essere delegata ad un allenatore con un progetto e una filosofia.

Intanto Antonio Conte si presenta a Napoli (“Loquor” riprenderà questo argomento) usando stilemi verbali tratti dal sergente maggiore Hartman di “Full Metal Jacket: “avremo una faccia incazzata”. Conte e De Laurentiis devono essersi incontrati sulla impervia e complessa via del patriarcato e si inebriano nello spreco di citazioni paterne in stile “Dalai Lama”, e anche qui siamo al cliché da biglietto da “Bacio Perugina” da cui è stato eclissato il valore materno e, soprattutto, la coerenza (ma anche su questo in seguito ritorneremo) a suddetti principi del lavoro e della correttezza. Mentre ripenso alla parola “madrepatria”, la calura serale estiva mi ricorda come la nostra tv in tale periodo ripropone dei cult del nostro cinema da buonumore. “Forse daranno Totò le Mokò”, penso sulla tv che si accende e fa irrompere l’ennesima immagine di una partita di calcio nel salotto. Non ce la posso fare, e la noia mi travolge inesorabilmente.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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