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Lo sport e la vita

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Torna l'appuntamento con 'Loquor', la rubrica di Carmelo Pennisi: E’ una estate particolarmente strana e affascinante, con un torneo di Wimbledon che si è tinto d’azzurro, e degli Europei di calcio..."
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“Lo sport è l’esperanto delle razze”

Jean Giradoux

E’ una estate particolarmente strana e affascinante, con un torneo di Wimbledon che si è tinto d’azzurro, e degli Europei di calcio dove a distinguersi sono i figli di immigrati di prima e seconda generazione, tutto questo mentre nella Francia attraversata da scontri di piazza per l’avanzata delle destra politica, ci si prepara alle Olimpiadi, che teoricamente dovrebbero riappacificare i popoli, mai come in questo momento attraversati da focolai di guerra e di tensioni d’odio difficili da sapere dove ci porteranno. Lo sport contemporaneo pare sempre più in bilico tra l’essere il ricordo di quello che fu, ovvero un momento di processo di identificazione e di gioia sociale, e il diventare un asettico business dove tutto va avanti per forza di una inerzia ben retribuita. Tutto sembra essere stato costruito per il cronometro del cinismo della quotidianità, con la didascalia degli impegni a imporci persino il “timing” delle nostre emozioni. Lo sport viene agitato come un alice in un cortile di gatti randagi, pronti ad accaparrarsene un pezzetto per soddisfare qualche appetito fin troppo soggettivo.

Capita così che una giornalista di Sky, su un social molto noto, invece di festeggiare Jasmine Paolini per aver raggiunto, prima italiana a riuscirci, una storica semifinale di Wimbledon, si perda in disquisizioni di lana caprina (ma ben altri termini mi verrebbero…) sul perché i siti internet non abbiano celebrato prontamente il trionfo della tennista toscana, come avrebbero invece fatto con il “maschio” Jannik Sinner. E giù tutta una serie di commenti politicamente corretti, ignari di star depauperando la grandezza dell’impresa sportiva storica della nostra tennista, come mai si sarebbe fatto con un uomo. I colti la chiamerebbero eterogenesi dei fini. La sensazione sgradevole, ogni volta, è quella di uno sport finito in ostaggio di interessi economici e socio/politici che ne stanno smembrando il senso, lo si prende ogni volta come cartolina assai visibile da agitare per soddisfare interessi. Si è dimenticato come ogni cosa, nello sport, parta da una strada o da un cortile, per poi irradiarsi vero quel mito che rimarrà per sempre scolpito nelle pietre senza età. Non c’è un ideologismo di genere, un contratto pubblicitario per un nuovo fustino di detersivo o una compagnia di telefoni, una bandiera sotto cui concorrere, nel cortile e nella strada c’è solo il sogno di provare a stupirsi e a stupire, in una spasmodica, e a tratti inconscia, ricerca del bello.

Lo sport per più di un secolo è rimasto incontaminato dal caos, un faro a tenere collegati con i tempi andati, un aiuto a spazzare via l’oblio scaturito da conversazioni a volte troppo piegate sui problemi del presente, e su tutte le sue necessità da soddisfare. Lo sport aiutava a non dimenticare mai noi stessi, con nomi di assi del volante o del pallone a rimbalzare da generazione in generazione, perché, a suo tempo, erano stati raccontati scevri da ogni tentazione di monetizzarne il momento o di sfruttarlo per qualche causa, nobile o meno nobile che fosse. Il bambino/a partito dal cortile o dalla strada, e passato per ogni turba adolescenziale, doveva essere rispettato per aver realizzato in giovane età un progetto scaccia oblio: una medaglia olimpica, un titolo nazionale o continentale, un titolo mondiale.

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“Darei mille libri per potere correre veloce come te”, scrive il genio di William Shakespeare, e non è l’invidia a parlare ma l’ammirazione per le infinite possibilità umane di creare bellezza partendo da un talento coltivato costantemente. Per tanto tempo lo sport questo è stato: contemplazione della bellezza mentre il presente diventa tempo che corre e si fa mito. Poi c’è il calcio che non è solo bellezza da contemplare, ma anche e soprattutto amore da vivere con familiari e amici, persino quelli occasionali. E’ sorprendente come il mio Torino, senza nessun acquisto ancora effettuato e barcollante come non mai nell’ignoto, abbia già sottoscritto il 30% in più degli abbonamenti per la prossima stagione calcistica rispetto alle stesso periodo del luglio dell’anno scorso. Ti chiedi cosa sia cambiato, quali aspettative possano avere generato entusiasmo tra i tifosi Granata, e alla fine, dopo esserti guardato attorno e aver visto l’ennesimo “niente” montare, capisci come sia l’amore il vero motore dello sport più seguito al mondo. L’amore di un tifoso non chiede niente in cambio, vuole soltanto che la sua squadra, con la sua maglia, ci sia a riempire di contenuti i suoi ricordi.

Il battito del cuore, finché ci sarà, sarò l’unico vero antidoto da opporre al mondo distopico dell’Intelligenza Artificiale, e il calcio sarà sempre lì a ricordarci come nessuna macchina, per quanto perfetta e utile, potrà mai sostituire le nostre emozioni. Certo anche qui c’è chi approfitta del nostro non essere macchine logiche, correndo a lucrare mancando di ogni tipo di tatto verso la nostra storia di tifosi, ci passa sopra e ne asfalta ogni idea di sentimento. Se esiste un Dio, e personalmente credo esista, un giorno dovrà rendere conto di questo sfregio. “Non è facile diventare un tifoso di calcio-dice il Colin Firth tifoso dell’Arsenal nel film “Febbre a 90°”-, ci vogliono anni. Ma se ti applichi ore e ore entri a far parte di una nuova famiglia, tutti si preoccupano delle stesse persone e sperano nelle stesse cose”, e nel racconto di Nick Hornby si dipana la materia dei sogni che diventa segno di affetto immutabile, anche per la tua comunità o il tuo Paese. E allora come si fa a chiedere agli atleti russi e bielorussi di gareggiare alle prossime Olimpiadi senza bandiera e senza inno nazionale? Si può chiedere di togliere dal cuore il posto dove sei nato? Cosa è diventato lo sport, un modo diverso per fare la guerra o per risolvere contese? O, peggio, per stabilire quale sia la verità? Temo si sia entrati in un periodo storico dove tutto si fonde e si confonde, con fazioni a prendere dalle cose ciò che più gli aggrada per i propri interessi, creando visioni falsate del reale. “Lo sport è il noi che è stato quando si ritorna nella solitudine dell’io” scrive Eduardo Galeano(spero il grande scrittore uruguagio possa perdonare il mio averlo “perifrasato”), e avere per un attimo la contezza felice di quando sia vero il fatto di avere tutti un destino comune e di essere uguali davanti alla vita.

Alcuni ritengono lo sport una sorta di “Caritas” dove viene offerto un pasto appena accettabile a chi non può permettersi più desideri, una sorta di droga per far accettare passivamente il tanto niente che a volte ci circonda. Poveri… non sanno quanto si sbaglino, probabilmente per alterigia sentimentale. “Tutto comincia con un bel passaggio”, comincia con una citazione di una frase di Eric Cantona il bel film di Ken Loach “Il Mio Amico Eric”, ed è questa gratuità nel passare bellezza e nel consentire a te di provarci fino in fondo il segreto dello sport, che non ti fa sentire abbandonato anche quando tutto pare averlo fatto, così tenace nel volerti fare restare aggrappato alla vita, a convincerti che no, non si è affatto dimenticata di te.

Sono sentimenti inconsci, primari, da vivere con la stessa facoltà cognitiva di una tribù, all’origine di ogni nostra sovrastruttura sociale dei tempi moderni. Mi capita di ripensare alla traversa presa da Gianluca Sordo in Ajax Torino, finale Coppa Uefa del 13 maggio 1992, di rimuginare su una felicità mancata per una mancata vittoria storica, e mentre credo di essere scontento in realtà sono felice. A distanza di anni sono ancora qui a ricordare quell’evento come una delle tante boe a tenermi aggrappato all’esistenza. “Si tifa per la propria squadra come si tifa per la propria vita”, e in questo aforisma del poeta Giovanni Raboni trovo ancora una volta la luce nell’oscurità, e mi capita di pensare alla salvezza come ad un torero nell’arena. Ci vuole coraggio per affrontare il toro, che non vuole te come tu non vuoi lui, ma che insieme si è costretti ad affrontarsi per vivere o morire. In mezzo a questa fine e questo inizio c’è la bellezza del movimento, della carica, dell’arretramento, del colpo finale. Tutto alla fine è rivelato, e mentre starai per andartene l’unico rimpianto che non vorrai avere e non averci mai provato. Sembra l’epitaffio perfetto dello sport. Onoriamolo e difendiamolo.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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