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Loquor

Lo sport, l’integrazione, l’immigrazione, la persuasione

Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 
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“I conservatori credono nell’associazione

                             civile tra i vicini”

Roger Scruton

I fenomeni “migrativi” sono da oltre un secolo parte dello scenario contemporaneo, uno scenario che non può essere inquadrato unilateralmente in una esclusiva idea di mondo creata e messa a servizio di alcune esigenze economico/finanziarie del comparto della produzione di beni e di servizi. “Pensi a una casa ereditata e all’amore di chi l’ha donata. Pensi all’amore con cui sarà conservata e lasciata a chi verrà dopo. L’idea alla radice del conservatorismo è questa”, scrive Edmund Burke, uno dei politici liberal/conservatori più importanti della storia inglese. L’appartenenza ad una nazione sicuramente vede nel luogo di nascita il suo punto di partenza, la “conditio sine qua non” per cominciare a muovere i primi passi nella vita e apprendere così con costanza il nostro posto sul pianeta, che nel 95% dei casi non sarà tra le eccellenze gravide di benefit sociali e patrimoniali transnazionali, e che non possono essere presi in nessun caso, a meno di semplificazioni ideologiche e sovente mistificatrici, ad esempio di consuetudine sociale. Per i conservatori, per chi ha una visione dell’esistenza, criticabilissima ma legittima, nel preservare lo status quo in alcuni stilemi sociali, il pensiero di Burke su una società “concepita come partnership fra i vivi e i morti” è una stella polare assolutamente da seguire. Il concetto di “diritto” varia da Paese a Paese, persino tra quelli limitrofi, e le quasi 33 miglia marine che dividono la Francia e l’Inghilterra possono cambiare ogni senso delle cose, considerato come la “Common Law”, ovvero una legge consuetudinaria che si forma nei tribunali, non è nemmeno lontana parente di una legge scaturita da una Rivoluzione Francese, che è effetto di un atto di conquista di un pensiero su un altro pensiero. Ecco perché usare lo sport moderno come ariete per scardinare secoli di cammino dei popoli è un atto tra il velleitario e il suicida, una sorprendente semplificazione dell’esistenza che non tiene assolutamente conto quel 95% del mondo costituito da persone comuni, impossibilitate nel capire e recalcitranti nell’abbracciare un universalismo più prodotto da laboratorio che frutto di una realtà fattuale. Eppure i “maggiorenti” dello sport contemporaneo si sono messi a servizio di questo prodotto da laboratorio, ritenendo quasi una missione storica usare l’enorme potere mediatico e ancestrale dell’agonismo per imporre schemi sociali e archetipi antropologici. Si rifletta bene su quanto sia filosoficamente scorretta tale posizione assunta dal mondo dello sport. Cosa sia giusto o cosa sia sbagliato, o cosa sia opportuno fare o non fare, non può dipendere dalla forza di persuasione di un dato strumento sociale, quale è oggettivamente lo sport, visto come bisogni considerare il rischio di far divenire tutto propaganda. Chi ama lo sport, chi ne abbraccia l’intrinseca natura educativa e letteraria, non potrà mai accettare di vederlo definito e annichilito da una ideologia o dal potere politico di uno Stato, e non può essere accomunato a nessun diritto civile, in quanto questi, come detto, possono variare come approccio anche a sole 33 miglia di distanza. Lo sport è libertà e competizione, ingredienti  base di qualunque tipo di democrazia. Niente deve “adulterarli” nelle loro manifestazioni, e devono essere gli agoni esistenziali su cui le storie delle persone procedono nella storia. Se l’Olimpiade è un valore universale dello sport, e ritengo su questo si possa essere tutti d’accordo, allora cosa c’entrano alcune forzature ideologiche nel corso del suo svolgimento? Davvero si può credere la vittoria di una medaglia un sinonimo di integrazione raggiunta? Qui non siamo all’illusione indotta dalla propaganda, qui siamo alla follia filosofica e intellettuale. Ci aggiungerei anche un certo infantilismo da social, figlio di una semplificazione di un pensiero scaturito da un non pensiero. Sbaglia Bruno Vespa quando scrive un tweet entusiasta sostenendo come il raggiungimento di una vittoria olimpica sia la dimostrazione di una integrazione italiana di Paola Egonu, e sbaglia Giovanni Malagò a rispondere con una considerazione alquanto ovvia: “Paola Egonu è italianissima”. O magari potrebbero avere ragione tutti e due. Forse bisognerebbe chiedere, in una intervista a cuore aperto, alla grande pallavolista Azzurra dove si collochi sul serio emotivamente e alla luce della sua esistenza sulla questione. L’integrazione degli immigrati, e noi italiani dovremmo saperlo bene, è cosa dolorosa e complessa e non dipende dal luogo di nascita, infatti tutti gli studi sociali più ottimisti auspicano una avvenuta integrazione nel giro della prima o seconda generazione della prole degli immigrati sbarcati in un nuovo mondo. Prova sono tutti gli studi condotti nelle “banlieu” francesi, luoghi tradizionalmente ad alta densità “immigrativa”, dove lo scollamento tra i giovani, addirittura figli di di terza e quarta generazione di immigrati, dalle prospettive esistenziali offerte dalla “Republique” comincia ad essere preoccupante. Sta facendo scalpore in queste ore il caso del quattrocentometrista olimpico  Muhammad Abdallah Kounta, nato a Parigi(quindi francesissimo, secondo il Malagò pensiero), protagonista di commenti social violenti e offensivi per tutto ciò concernente la cultura socio/spirituale della Francia e dell’Europa. A leggere i messaggi social dell’atleta francese c’è da farsi molte domande, considerato non si tratti di un emarginato sociale ma di un cittadino altamente performante. E’ integrato Abdallah Kounta, essendo nato a Parigi, e quindi incontestabilmente francese? Oppure la testa e lo spirito, a livello culturale, sono collegati con la terra d’origine dei genitori? Cosa realmente fanno muovere le nostre emozioni e le nostre idee? Siamo semplicemente davanti a delle persone confuse o romanticamente nostalgiche, oppure con delle persone con delle idee precise sul mondo, un mondo che in tutta evidenza non potrà mai essere l’Europa? La quale Europa sta pensando bene di sbiadire ogni sua radice culturale, usando il teorema dei diritti civili, per accelerare un processo di inclusione che, a leggere Kounta, pare una parodia abbastanza comica di un vero contesto sociale. Il successo incredibile del bruttissimo e sconclusionato libro del Generale Vannacci, propostosi come abbecedario della difesa della cultura socio/antropologica italiana, non deve scatenare facile indignazione alla carta o battute da osteria social, ma dovrebbe far riflettere sullo stato reale di una parte rilevante della società italiana, di cui non si possono ignorare attese e difficoltà. Provare ad usare lo sport alla stessa stregua di un clava persuasiva al fine di imporre una visione della vita, ignora proprio la base di un cammino democratico e di libertà, che è fatica e mediazione continua e non precipitosi passi in avanti molto avventurosi. Gli Stati Uniti, che sono terra di frontiera e di immigrazione oltre che una grande democrazia, ci hanno messo un secolo per abolire la segregazione razziale, nonostante una sanguinosa guerra civile avesse abolito la schiavitù. Vivere “un’epoca di materialismo felice”, come l’ha definita Roger Scruton, porta a non pensare mai alle conseguenze del dopo, a quando le luci della ribalta del grande evento sportivo si spengono, lasciando tutti noi con i soliti problemi di sempre da risolvere. Le nostre fantastiche donne protagoniste di orgogliose vittorie olimpiche, non sono nemmeno lontanamente la risposta possibile alla disparità di genere in materia di salario presente nel nostro Paese. Non sono nemmeno un riscatto, perché oggi e per molto tempo domani, molte italiane lavoratrici del tessile e dell’agricoltura continueranno a guadagnare come ieri. Si rifugga, per favore, dalla facile retorica a cui stanno sottoponendo lo sport, tanto sabato ci ritroveremo all’inizio del campionato di calcio e, potete scommetterci, purtroppo il razzismo dagli spalti degli stadi tornerà a farsi sentire. Il cammino culturale di un popolo è nella consapevolezza raggiunta, non nella persuasione effimera della propaganda. Lo sport, con i suoi valori, può servire per educare al cambiamento i cuori, che dovrebbero essere sempre pronti alla verità e alla comprensione. Ma quanto è difficile il percorso.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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