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columnist
“Lo stadio è quel posto dove, quando
ci andate, vi accolgono sempre”.
Robert Frost
Le cerimonie di apertura dei grandi eventi polisportivi hanno sempre un fascino al quale è impossibile resistervi. Lo sciorinare della meglio gioventù sportiva mondiale dietro la bandiera della nazione alla quale appartengono, la gioia di salutare con le loro bandierine il pubblico presente sulle gradinate e le telecamere con cui quel saluto arriva in ogni angolo di mondo, l’allegria contagiosa della consapevolezza di vivere l’ irripetibile nelle loro esistenze, è un qualcosa che ricollega istantaneamente con ogni nostra possibile ipotesi di bellezza. Così è stato anche ieri nella cerimonia di apertura della trentesima Universiade in corso a Napoli fino al 14 di luglio. Un momento particolarmente denso di significato è avvenuto, a mio parere, nel corso della presentazione della rappresentativa argentina, dove tra le sue file sono improvvisamente comparse delle maglie numero 10 di Diego Armando Maradona, in chiaro segno di omaggio al popolo napoletano presente allo stadio San Paolo. Sorvolando per un attimo sull’animo gentile di quei ragazzi argentini(onorare gli ospiti è un segno di saggezza e di grande qualità di sentimento) , la cosa a colpirmi ancora una volta è una delle più belle qualità del calcio, come occasione di memoria collettiva assolutamente non lasciata alle pieghe dell’oblio. Maradona ha smesso di giocare ormai da tanto tempo, e in questi ultimi anni ha fatto parlare di sé più per comportamenti discutibili che per il suo passato di calciatore o per una precaria e controversa carriera di allenatore.
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Eppure a dei ragazzi argentini è bastato trovarsi sul suo “teatro” principale, lo Stadio San Paolo, per sentire il bisogno di ricordarlo. E’ da sottolineare come nessuno di quei ragazzi, per ragioni anagrafiche, abbia mai visto giocare l’ex fuoriclasse argentino, ma in qualche modo le sue gesta sono rimaste impresse nella memoria collettiva di un popolo che ha trasformato un giocatore in puro dna trasmettibile da generazione in generazione. I calciatori simbolo un tempo erano vissuti così, come delle occasioni uniche e irripetibili, assolutamente da preservare nei memorabili racconti orali di cui è piena la storia del calcio. Ogni club dovrebbe avere un ex giocatore simbolo nel suo organigramma, perché essi rappresenterebbero, e rappresentano per i club che gli hanno riservato un posto nel dopo carriera, un segno di rispetto per i tifosi. E’ triste aver visto Francesco Totti dimettersi dal suo ruolo dirigenziale nella Roma. E’ triste come non sia stato mai riservato un ruolo dirigenziale a Paolo Pulici nel Torino. E’ triste come a Maradona non sia mai stato consentito di rientrare in qualche modo nella vita del calcio Napoli. Qualcuno ha scritto che “c’è una condizione più disperante di quella di avere un destino crudele, ed è quella di non avere un destino”; non avere un destino è proprio quello che capita quando ostentatamente si dimenticano tutti coloro che potrebbero avere i “contenuti” per regalarcelo il destino. E allora, nella perdita del destino, capita di smarrirsi, di non trovare più una via riconoscibile al nostro sguardo e al nostro cuore. Può capitare di trovarsi al mitico “Stadio Filadelfia” e non capire più perché proprio lì ci si trovi. “Qui ci giocava il Grande Torino”, potrebbe qualcuno venire in soccorso. “Qui si allenava la squadra che giunse alla finale sfortunata di Amsterdam”, potrebbe dire qualche altro, sempre nel disperato tentativo di un soccorso. Già, ma chi lo dice che qui sono avvenute tutte questa cose? Chi lo può assicurare? Ci vuole qualcuno a rassicurare come forse nella Bibbia non tutto quel che è scritto è veramente accaduto, ma come sia tutto vero.
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E questo qualcuno non può essere una persona qualsiasi, non si può delegare ad un manager uscito da qualche supercorso di Coverciano la prova della verità. I tifosi devono sentire con il cuore e devono essere rassicurati con la vista di essere capitati davvero nel posto giusto. Il calcio è un processo di assunzione, non di rimozione. E’ senz’altro vero che tutti si aspetta il campione del domani, come degli assetati alla ricerca della purezza della vera acqua fresca. Ma questa ricerca assume un senso perché dentro di noi abbiamo il ricordo nitido di questa purezza. E allora vogliamo riassaporarla. Ed è gente come Maradona, con il suo ricordo appalesatosi improvvisamente in una sera di calura allo Stadio San Paolo, a ricordare a tutti come quello sia il teatro giusto. In quest’ottica è comprensibile la solitudine provata da Ignazio Abate che dichiara “con i cinesi mi sentivo estraneo a casa mia”. Quando non trovi più segni del tuo destino, è facile non riconoscere più nemmeno la tua casa. Durante la cerimonia di apertura delle universiadi, le telecamere spesso hanno indugiato sul volto del Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella, accomodato nella tribuna d’onore dello Stadio San Paolo. Per tutto il tempo ha riservato qualche sorriso di circostanza e qualche applauso annoiato. Ma quando, in ultimo, è entrata la rappresentativa italiana per il giro di presentazione, il suo volto si è accesso di un entusiasmo incontenibile. Si è vista una evidente felicità attraversargli il corpo, perché i “suoi ragazzi”, i ragazzi di una nazione che ha l’onore e l’onere di presiedere, stavano raccontando al mondo che l’Italia, ancora una volta, era presente e viva.
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Ed è stato il volto entusiasta di Sergio Mattarella a dare una sorta di sanzione notarile e di verità: sì quelli sono i miei ragazzi, quelli sono i ragazzi italiani, quella è l’Italia. Siamo ancora qui. Subito dopo l’immagine è staccata in un Campo Lungo, dove la nazionale italiana procedeva orgogliosa e felice verso un orizzonte. E’ stato un momento di pura poesia, di indicibile armonia. Ogni italiano, immagino, si sarà sentito parte di un qualcosa. Ecco perché, in mezzo a tutte quelle molteplici scritte di ricche sponsorizzazioni, sulla carrozzeria di una Ferrari da corsa non manca mai una piccola bandiera tricolore. Perché non si debba mai dimenticare come quel bolide rosso sia la sintesi del genio e dei sogni di generazioni di italiani. I giocatori simbolo, i loro volti, le persone di cui ci fidiamo, sono necessari per non farci definitivamente smarrire la strada di casa. Sono necessari per farci riconoscere casa nostra, una volta giunti sulla soglia della sua porta. Ecco perché sono rimasto impressionato da quelle maglie numero 10 sventolate in alto dai ragazzi della rappresentativa argentina. Hanno ricordato a tutti noi che quella è stata la casa di Maradona, hanno sottolineato come quella sia la casa del Napoli, hanno capito che stavano percorrendo il breve tragitto di un destino e di una idea. Che i club, tutti i club, facciano di tutti per riportare a casa i loro ex giocatori simbolo. Ne abbiamo bisogno, un disperato bisogno. Dobbiamo riconoscere dove tutto è iniziato, e dove tutto si è compiuto. Perché, in fondo, ritornare a casa e riappropriarsene ancora una volta, è l’unica conta. Qualcuno ha scritto:”la tua casa è un angolo di paradiso, uno squarcio di bellezza, un segno di eleganza, un sogno che diventa realtà. Congratulazioni”. Mi associo.
Di Anthony Weatherill
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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