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Maignan e il razzismo nello sport

Torna "Loquor", la rubrica di Carmelo Pennisi, con un nuovo appuntamento: "Facciamo che i buoni sentimenti e le buone intenzioni non siano proclami ma fatti concreti. Non siamo nati solo per resistere, ma anche per provare a modificare il mondo"

“Io sono del colore di coloro che sono perseguitati”.

Alphonse de Lamartine

Jackie Robinson, il primo giocatore afroamericano a militare nella Major League di baseball americana, un giorno disse di sé: “Sono nato per resistere”. E la sua vita, in effetti, è stata tutta una resistenza sin da quando venne al mondo in Georgia, all’epoca uno degli Stati più razzisti e segregazionisti degli Stati Uniti. Per affermarsi come giocatore di baseball professionista dovette affrontare umiliazioni inimmaginabili, come quando nel corso di una partita del 22 aprile del 1947 dei giocatori avversari lo apostrofarono “nigger” e lo invitarono a tornare nei campi di cotone. Ma lui era nato, appunto, per resistere, anche quando, da ufficiale dell’esercito nel corso della II Guerra Mondiale, fu deferito alla corte marziale per essersi rifiutato di andarsi a sedere in fondo all’autobus, perché è lì che i “negri” dovevano stare. A Branch Rickey, una delle figure più leggendarie del baseball americano, che lo voleva mettere sotto contratto per i “Brooklyn Dodgers”, abbattendo così la “baseball color line”, la regola discriminatoria che impediva agli afroamericani di giocare nella Major League, chiese con provocatoria determinazione: “Vuole uno che non ha il fegato di fare a pugni”?. La replica di Branch è rimasta scolpita nelle pietre senza età non solo del gioco più amato d’America, ma di tutta la storia dello sport: “No, voglio un giocatore che ha il fegato di non fare a pugni”.

È la forza dirompente di essere nel giusto ad affermarsi, il silenzio consapevole sul sopruso chiassoso, il talento che vince sull’ignoranza. L’idea suprematista di una razza superiore alle altre, viene sconfitta, nel tempo, da una forza intrinseca che lo sport ha con sé da sempre: bellezza, forza e talento. Non si può non rimanere soggiogati dalla bellezza quando ti si appalesa davanti con tutta la sua forza di musa ispiratrice. A volte mi chiedo cosa passi per la mente di persone che rivolgono insulti razzisti ad un giocatore di colore nel corso di una partita, di cosa realmente sia fatta la loro esistenza, da quante e quali esperienze provengano. Vorrei guardarli negli occhi e fargli alcune domande, per capire se si rendono conto sul serio del significato di alcuni pensieri ed alcune parole. Mi piacerebbe ricordargli che siamo italiani e che abbiamo subito, e continuiamo a subire, tutta una serie di pregiudizi di stampo razzistico quando andiamo a lavorare all’estero. Vorrei rammentargli come venivano trattati i nostri minatori in Belgio negli anni cinquanta e sessanta quando venivano spregiativamente apostrofati come “macaronì”.

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Non li espellerei dagli stadi questi fenomeni da baraccone, sarebbe troppo comodo lasciarli nell’isolazionismo della loro imbecillità. No, li porterei in gita in Belgio a sentire i racconti dei nostri coraggiosi e magnifici minatori, ormai in pensione ma pieni di ricordi. “Quando - ricorda uno di questi - siamo arrivati per la prima volta al campo 17, l’ex campo dei prigionieri tedeschi, mia madre chiese a mio padre dove fossero le case. 'Sono queste. Per il momento ci dobbiamo dare pace'", rispose lui rosso in volto per la vergogna. Ci vedevano così i belgi, come gente da ammassare alla buona in ripari di fortuna, carne da macello buona solo per scendere nella profondità di una miniera. Ma i nostri minatori e la nostra classe operaia un tempo non li ammazzavi nemmeno a cannonate, perché erano ben consapevoli per cosa e per chi si stavano sacrificando.

Eravamo italiani e in quanto tali mezza Europa si sentiva autorizzata a sputarci addosso, esattamente come quei fenomeni ad Udine che hanno pensato bene di riempire di insulti razzisti il portiere del Milan Mike Maignan. Sì, portiamoli in gita in Belgio o in Germania questi fenomeni che stanno facendo passare la voglia persino di tifare per una squadra, facciamogli toccare con mano le cicatrici dei nostri connazionali che con le loro rimesse in denaro hanno consentito al nostro Paese di diventare ricco. Facciamogli sentire con le loro orecchie, da loro connazionali, cosa significa essere umiliati per ragioni di nascita o per il colore della pelle. Facciamo che comincino a ricordare per non dimenticare mai più. Proviamo a fargli vedere come la mortificazione e l’umiliazione degli altri non equivale affatto al rafforzamento biologico di sé stessi. Sbatterli fuori dagli stadi, dare la sconfitta a tavolino alla loro squadra del cuore sono dei meri palliativi non sufficienti, abbiamo il dovere di non lasciarli persi nel loro odio da suprematismo etnico.

Lo sport insegna a combattere per dei valori universali irrinunciabili, che sovente portano tutti noi ad essere migliori di come spesso ci rappresentiamo. Siamo alla vigilia del “Giorno della Memoria” e noi italiani abbiamo molto da farci perdonare, basti pensare, riguardo al calcio, alla persecuzione subita da Erno Erbstein (ovviamente molto caro a noi tifosi del Toro) e, soprattutto, dal grandissimo Arpad Weisz. Sono credente ma, lo confesso, mi riesce ancora oggi difficile perdonare chi macchiò il nostro Paese con l’infamia delle “Leggi Razziali”, gettando nell’oblio storie e biografie di innumerevoli persone. “Fatto sta – scrive Matteo Marani – che di Weisz, a sessant’anni dalla morte, si era perduta ogni traccia. Eppure aveva vinto più di tutti nella sua epoca, un’epoca gloriosa del pallone, aveva conquistato scudetti e coppe. Ben più di tecnici tanto acclamati oggi. Sarebbe immaginabile che qualcuno di loro scomparisse di colpo? A lui è successo”. Il desiderio di far scomparire il diverso da te, e se proprio non lo puoi far scomparire allora prima odialo e poi annientalo nello spirito. Ma quanta tristezza e nichilismo ci può essere a volte nell’animo umano? Dobbiamo riconoscere come purtroppo noi si sia aperti anche alla possibilità dell’orrore, confuso come necessità primaria della nostra esistenza. Mi auguro prima o poi qualcuno realizzi un film su Weisz, che potrebbe essere un’occasione per portare i fenomeni di Udine a vederlo e provare a fargli comprendere una cosa fondamentale: Weisz a causa dell’odio etnico/religioso ha perso la vita, ma noi abbiamo perso lui e il suo immenso genio. Noi lo abbiamo ammazzato per odio, egli è morto per amore. Poteva mettersi in salvo oltre oceano, ma l’amore per il calcio ebbe il sopravvento. Accettò di allenare il Dordrecht, squadra olandese di modesta importanza che solo con lui ebbe il suo momento di gloria. Fu proprio questa gloria ad accendere un faro sulla sua persona, con la conseguenza di condurre lui e la sua famiglia nel drammatico orrore di Auschwitz dove trovarono la morte.

In un mondo perfetto non sarebbe male che fosse l’Udinese a chiedere dei punti di penalizzazione alla sua classifica per quanto successo nell’ultimo Udinese-Milan, sarebbe una risposta memorabile a tutti coloro afflitti da complesso di superiorità, sarebbe un modo di riaffermare cosa voglia dire essere uomini di sport. Togliersi dei punti per dimostrare come ci siano valori a valere più dei risultati e dei profitti, dando così un netto segnale di controtendenza ad una società sempre più immersa nel nichilismo. Non si deve cercare a tutti i costi l’impunità attraverso dei distinguo a volte davvero risibili (è chiaro come l’Udinese nulla c’entri con questi sciagurati dal bon ton razzista), ma si deve impedire, in ogni modo, la disgregazione di una memoria collettiva e l’affermazione di ogni idea portatrice di subordinazione. Facciamo che i buoni sentimenti e le buone intenzioni non siano proclami ma fatti concreti, operiamo con determinazione sulle tracce della nostra storia, applaudiamo ogni qual volta riusciamo a non essere pregiudizievoli, aiutiamo chi ancora fatica a concentrarsi sulla bellezza preferendo la seduzione mortifera dell’odio. Lo dobbiamo a gente come Jackie Robinson, Erno Erbestein, Arpad Weisz e anche un pò a noi stessi. Non siamo nati solo per resistere, ma anche per provare a modificare il mondo. In bocca a lupo a tutti noi.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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