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Malagò versus Gravina: che Italia è?

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Loquor / Torna la rubrica di Anthony Weatherill: "La grande politica è quelladelle risoluzioni audaci"
Anthony Weatherill

“La grande politica è quella

delle risoluzioni audaci”.

Cavour

Giovanni Malagò e Gabriele Gravina nei giorni scorsi sono entrati in rotta di collisione in modo così deflagrante e scomposto, da far chiedere a Ivan Zazzaroni, direttore del Corriere dello Sport, cosa mai frulli nella testa del presidente del Coni, che ogni due per tre ormai interviene sistematicamente nelle vicende del calcio. Interventi che non sono mai uno stimolo per risolvere questioni vitali per l’organizzazione del mondo dello sport più amato dagli italiani, ma sono solo delle autentiche cariche a pallettoni contro il presidente della Federcalcio. Tanto che Zazzaroni giunge a chiedersi: cui prodest?

L’ex ragazzo dell’Aniene non è mai stato uno dedito a muoversi a casaccio, nei suoi modi di fare tipici del “generone” romano, con il classico ostentare il “volemose bene” a nascondere sempre un tramare a beneficio delle ambizioni, da anni cerca di allargare sempre di più il suo posto al sole nell’Italia che conta. L’uomo, non essendo un fine intellettuale o un classico archetipo di “uomo del destino” italico, più che allo sport non poteva puntare per sperare un giorno, quando come tutti passerà a miglior vita, di essere ricordato attraverso qualche targa commemorativa o via di Roma a lui dedicata. E’ il complesso “dei Sepolcri” di Ugo Foscolo, che prima o poi prende a quelle tipologie di persone ossessionate dal voler essere ricordate a causa di una loro grandezza, o presunta tale. Ecco quindi, nonostante le molteplici cariche ricoperte su cui impegno rimane un mistero simile al quarto segreto di Fatima (quante similitudini con l’amico e sodale Montezemolo), lo sport diventare quasi una metonimia della necessità di portare con tenacia il suo narcisismo a futura memoria dei posteri. Aveva già silurato un presidente della Federcalcio, Carlo Tavecchio, all’indomani della pesante eliminazione dai mondiali di Russia. Con un tempismo perfetto si era presentato nel salotto buono di tutti i radical chic che contano, quello del camerlengo dei potenti Fabio Fazio, e aveva letteralmente fucilato senza processo un uomo con una vita spesa interamente per il calcio. Ora, in tutta evidenza, ci riprova con Gabriele Gravina, minandone l’autorità di presidente di federazione dichiarando in modo assai obliquo e tendente ad ogni ipotesi malevola sull’impianto etico/morale dell’attuale presidente della Federcalcio, come il “il calcio vuole andare avanti, mettendosi in una situazione diversa rispetto alle altre discipline”.

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Tali parole sono state più di uno sgambetto innocente, sono state il segnale di una vera e propria dichiarazione di guerra. Gravina stavolta non ha scelto la via felpata e pelosa, tipica della stanze del potere dell’Italia contemporanea, e ha risposto con decisione e chiarezza a colui che del calcio deve avere una dimensione di quello pensato “a cinque”, sport da lui praticato negli anni giovanili in cui pensava a quale tigre saltare sopra per regalarsi un futuro da potente riconosciuto. “Non entro nel merito – ha detto il presidente della Federcalcio – delle scelte che hanno adottato le altre discipline, ma il calcio ha una sua specificità. Lo è per dimensione e per impatto economico. Inoltre stiamo rischiando un notevole danno sociale”. Se Gravina non gli ha dato dell’incompetente vanaglorioso, al presidente del Coni, poco ci è mancato. Qualche ora dopo, infatti, ad un’altra radical chic militante, Lilli Gruber, Alessandro Del Piero ha dovuto ricordare, pazientemente, come il calcio sia una delle principali industrie nazionali (il 7% del Pil), dove trovano lavorano e futuro per le loro famiglie migliaia di persone. Quindi non trattasi semplicemente di un gioco, per la sorpresa di “Lilli la Rossa” convinta che di cose meramente ludiche si stesse parlando. Certo si sta assistendo ad una curiosa corsa, da parte di gran parte della classe dirigente italiana, a voler demolire in modo dissennato tutto ciò che produce Prodotto Interno Lordo. Lo fanno per incompetenza ma, soprattutto, perché ogni loro agire ha come unico scopo l’interesse personale e della cerchia di “amici” a cui appartengono. Il Covid-19 ha creato, a questa classe dirigente che passerà alla storia per aver distrutto fino alle sue fondamenta spirituali e filosofiche quella che fu una delle nazioni più ricche e operose del mondo, la narrazione perfetta per prendersela ancora una volta con il nemico straniero. E più passa il tempo, più si abbassa persino la potenza e il valore del presunto nemico. Da qualche giorno, infatti, non è più la Germania la preoccupazione degli italiani, con il suo potere storicamente soverchiante rispetto all’Italia e all’Europa intera, ma l’irrilevante Olanda. Con i suoi mulini a vento e i suoi tulipani (vien quasi da ridere), gli olandesi hanno dimostrato quanto poco valga l’attuale classe dirigente italiana, ora tesa a dimostrare al suo popolo quanto tanto stia facendo per salvare ogni vita umana dalle fauci del terribile virus venuto dall’oriente.

Sarà compito degli storici valutare la reale consistenza di questo “tanto”, per il momento ci si può limitare solo a contare l’elevato numero di vittime e l’inizio di una gravissima crisi economica più che annunciata. Fermare tutta la produzione industriale e ogni tipo di transazione economica, a parte quelle alimentari e farmaceutiche, deve essere sembrata una grande idea a chi di idee non ne ha avuta mai nemmeno mezza. Terrorizzare un intero Paese e chiuderlo dentro casa, dando mandato alle forze dell’ordine di dare una caccia senza sosta alle grigliate sui tetti, è esattamente lo specchio di una classe dirigente abituata a prendersi sul serio, mentre al massimo sta teorizzando una barzelletta. Gli italiani sono pazienti e a volte disposti (colpevolmente) a credere a tutto, persino ad un Romano Prodi a cui in una seduta spiritica, tenutasi nel lontano 1978, l’anima di Alcide De Gasperi avrebbe confidato il luogo dove le “Brigate Rosse” tenevano prigioniero Aldo Moro. Marcello Veneziani, nel suo ultimo lavoro “Dispera Bene”, ha dipinto un desolante, ma quanto mai veritiero, quadro dell’attuale classe dirigente contemporanea. “La rappresentazione –ha scritto Veneziani - ha ormai vuotato la rappresentanza, il teatrino ha cancellato la storia, finita nella rete”. E quando non c’è rappresentanza, ma rappresentazione, l’unica cosa a contare è mettere in scena qualcosa per intrattenere. Ed ecco come un’attrice viene catapultata alla vicepresidenza dell’importantissima Lega Dilettanti, il cuore pulsante dell’attività calcistica italiana, e le cui attività a favore del calcio amatoriale sono attualmente sconosciute, come è sconosciuta la sua opinione sulla deflagrazione in corso di tutto il mondo del calcio legato al dilettantismo.

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A volte i voli pindarici sarebbe meglio interpretarli, piuttosto che farli. Ma una poltrona, se appartieni alle frequentazioni giuste, in Italia non si nega proprio a nessuno. Non importano in sé le motivazioni del candidato “poltronaro”, ma quelle degli amici degli amici. L’importante, al momento opportuno, è che tutti gli interessi convergano. In cosa? Lascio al lettore la capacità di immaginare o ipotizzare. E mentre l’unica cosa certa regalateci dai virologi diventate star televisive, è che su questo virus non si conosce nulla, varie battaglie politiche e di potere sono in corso. E l’assenza di idee è l’unica cosa a connotarle. “Non l’essere – ha scritto Veneziani – e nemmeno il fare, solo il dire decide la sorte dei politici”. Ormai conta solo la fazione, e vedere una persona perbene come Pier Luigi Bersani sostenere in una nota trasmissione televisiva come in Italia nessuno muoia di fame e come in “soli” due mesi l’attuale governo riuscirà a liquidare la prima cassa integrazione, fa solo rivenire in mente le brioche della Maria Antonietta della Francia alla vigilia della rivoluzione. Nessuno a spiegare come mai la Spagna ha riaperto diverse sue attività produttive, e i motivi delle squadre della Bundesliga tornate ad allenarsi. Fare la fila davanti ai supermercati sembra l’unica cosa concessa ad un popolo, quello italiano, sempre più spaventato che consapevole. Recuperare il senso delle nostre azioni forse non sarebbe così male, per scendere da un Titanic pronto a fare un frontale contro un iceberg. “Non si può non giocare più a calcio”, è stato il grido d’allarme di Carlo Tavecchio, completamente in controtendenza rispetto al presidente del Coni, preoccupato a farsi notare tra i più ligi alla linea dettata dal governo Conte, più che ad insegnare amore per lo sport. Come spiegare l’amore per il calcio? Esso è quel refolo di vento a sfiorare dolcemente i nostri volti, sdoganandoci per qualche attimo dagli affanni della vita quotidiana. E lo aspettiamo… lo aspettiamo… e ancora lo aspettiamo. È arcobaleno. È fuochi d’artificio. È vita. Quella vita dalla quale qualcuno ha deciso di esiliarci. Riappropriamocene, e al diavolo la paura. Siamo stati pensati per essere l’audacia di Ulisse, fino alla fine dei nostri giorni. Pochi o tanti che siano.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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