“Restate calmi. Giochiamo
Loquor
Marco Verratti disperso tra le dune del Qatar
per voi”.
Gaetano Scirea all’Heysel
90 milioni di euro in tre anni, questo è il valore dato a Marco Verratti per aver assecondato i desiderata di Nasser Al Khelaifi, costretto a liberarsi di lui, cedendolo all’Al Arabi, per volontà di Luis Enrique, nuovo padrone della panca del Paris Saint Germain. Il rapporto strettissimo che lega il giocatore abruzzese al presidente qatarino del PSG è noto da anni, tanto da far scaricare brutalmente Donato Di Campli, procuratore storico del centrocampista, reo di aver provato a portare il suo ex assistito al Barcellona. “Al Khelaifi – racconta Di Campli – mi disse che se avessi continuato a tentare di concludere con il Barcellona Verratti mi avrebbe lasciato, ed è successo. Sono sicuro che Marco ha avuto paura, non lo riconoscerà mai ma è così. Dal giorno in cui è arrivato (al PSG) è stato in carcere”. Sarà stata questa paura a convincere Verratti ad andare a seppellirsi calcisticamente in Qatar, in modo da dare quasi 50 milioni di ricavi utili ad Al Khelaifi per continuare a mantenere in piedi la pantomima del rispetto dei Fairplay finanziario UEFA regolarmente raggirato dai parigini da quando il Qatar è al comando? O è stata complicità consolidata nel tempo, che probabilmente si riverbererà positivamente sugli interessi del calciatore anche nel suo dopo carriera agonistica? Difficile avere risposte su tali quesiti, ad essere certa c’è solo l’impunità di chi sa essere abbastanza disinvolto da poter navigare indisturbato tra i supposti paletti regolamentari del calcio. L’Al Arabi, infatti, è di fatto di proprietà della famiglia Al Thani (tutto in Qatar è di proprietà degli Al Thani), una famiglia talmente larga da poter controllare ogni cosa senza dare l’idea di farlo (o almeno questa è la sua illusione, favorita da una continua opera munifica di elargizione di prebende, che sarebbe facile da rendere pubblica per quanto è sfacciata e priva di ogni inibizione legale o morale).
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E’ facilmente immaginabile la conversazione intercorsa tra Verratti e il suo ormai ex presidente (giusto per essere chiari, il virgolettato è suggestione drammaturgica): “Marco ormai hai fatto tutto quel c’era da fare nel calcio, ed io ti ho sempre trattato bene. Ti ho reso un uomo ricco, ti ho introdotto in tutta la Parigi che conta, ti ho supportato nel corso dei tuoi innumerevoli infortuni e ti prometto che la nostra amicizia durerà tutta la vita. Non sono contento che Luis Enrique mi abbia chiesto la tua testa, ma sai bene come gli allenatori chiedano sempre uno scalpo illustre appena si siedono su una nuova panchina. Però questo forse ti consente di darmi una mano: sei un ottimo veicolo per farmi arrivare dei soldi dagli Al Thani in perfetta osservanza delle regole, al fine di far mantenere la barca a galla la barzelletta del tetto massimo di spesa per giocatori e allenatore calcolato sul fatturato del club. Ti metti in tasca 90 milioni di euro in tre anni e alla scadenza del contratto avrai 35 anni e ancora qualche anno per andare a finire la carriera dove vuoi. Non è un cattivo affare, credimi”. Henry Ford soleva ripetere spesso che “un affare in cui si guadagna soltanto del misero denaro è un misero affare”, ma era un uomo di tempi in cui la decenza pubblica e le parole ancora avevano un valore, l’occasione di dare un limite alle proprie ambizioni e al senso di appartenenza alle complicità. Ma in questo terzo millennio dove tutti parlano di pace universale e dove c’è un numero spropositato di eventi bellici mai registrati nelle vicende umane, le parole servono solo alle esigenze di messinscena e la decenza pubblica ha cessato di avere importanza per l’opinione pubblica.
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In questo senso fa sorridere, ma non mi sorprende più, l’ultima filippica di Aurelio De Laurentiis critico verso lo Stato italiano che non concede “una base di libertà” al calcio nostrano per fare i suoi legittimi affari. Stiamo parlando di uno a cui questo Stato sta consentendo di avere la proprietà di due club calcistici, l’impunità per una delle plusvalenze fittizie più comiche e scandalose della storia del calcio (quella dell’arrivo di Victor Osimhen all’ombra del Vesuvio), l’opacità, che non dovrebbe essere consentita nel mondo dello sport, di far detenere il 90% della proprietà del Napoli ad una “fiduciaria”: si sa, con certi soggetti passare da un dito, al braccio e al tutto il corpo è questione di un attimo, di disinvoltura e di ottime relazioni, tutte qualità possedute dall’Aurelio nazionale (soprattutto l’attimo: lo sa cogliere come pochi). “Bisogna adoperare i propri principi nelle grandi cose, nelle piccole basta la misericordia”, scrive Albert Camus, grande appassionato di calcio, nel lontano 1937, ma confesso come di fronte a certi colpi di mano la misericordia vacilla anche dentro l’anima di un cattolico quale io sono. Quando nel 2020 il PSG si giocò la finale di “Champions League” contro il Bayern di Monaco, aveva un monte salari di 91 milioni di euro in più rispetto ai tedeschi. Erano stati più bravi? Avevano all’ufficio marketing una progenie del “Mago Merlino”? I bavaresi al loro confronto parevano il Celtic di Jock Stein, pieno di ragazzi di belle speranze quasi tutti cresciuti nei quartieri cattolici di Glasgow, o della “Greater Glasgow”, al cospetto della “Grande Inter” di Sandro Mazzola e Luisito Suarez nella finale di Coppa dei Campioni del 25 maggio del 25 maggio 1967 a Lisbona. Quella finale l’ha vinta il Bayern, a dimostrazione di come il calcio sia una di quelle dimensioni umane dove è possibile rintracciare l’esistenza di una misteriosa giustizia capace di andare oltre i maneggi delle persone. “Pensa agli affari come un gioco avvincente e tieni il punteggio con i soldi”, ha detto in uno dei suoi tanti “speech” Bill Gates (sì proprio quello che dopo aver raggiunto una posizione scandalosamente dominante nei “software”, ora si sta dedicando a comprare quanto più terreno coltivabile possibile), ed è a questo principio che si deve essere attenuto Verratti nell’atto di prendere due piccioni con una fava: guadagnare scandalosamente bene in soli tre anni e compiacere il suo complice elevato a demiurgo del calcio europeo da un altro complice, il presidente Uefa Aleksander Ceferin.
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Scegliere di passare alla cassa piuttosto che alla storia da più agi e meno problemi, e fa dimenticare i sogni avuti in gioventù, le tante parole spese con gli amici sulla necessità di un mondo migliore. Perché il mondo migliore lo desideri solo quando pensi di non averlo mai, ma tutto cambia quanto il tuo florido conto in banca ti comunica come il mondo non cambierà mai, però la tua vita sì. La immagino la voce avvolgente di Al Khelaifi e la sua logica stringente: “Marco, che vuoi finire come Garrincha? Il Botafogo gli ha concesso una statua nella sua sede, ma le statue sono per i morti e quindi non le puoi nemmeno vedere, e nemmeno su qualche possibile via a te eventualmente dedicata potrai passeggiare. Ah, guarda che Garrincha è morto povero e qualche anno fa pure i suoi resti mortali sono stati trafugati da un cimitero più povero di lui. E aveva vinto due mondiali. Te lo dico da amico: quando tutti si dimenticheranno di te, e stai certo che lo faranno, il tuo conto in banca continuerà a ricordarti senza sosta”. Povero Verratti, deve essere rimasto frastornato fino al disorientamento dalla velocità con cui gli undici anni parigini gli si stavano sgretolandosi davanti, e forse gli sarebbero stati utili le parole di Paul Newman nel “Colore dei Soldi”: “devi sempre sapere quando puoi dire sì e quando devi dire no, e il punto vincente di ogni buon giocatore, e dovresti dire no perché la posta è troppo alta e io sono una incognita”. Lasciamo perdere l’incognito, esso è figlio di un mondo popolato dalle parole degli scrittori russi, convinti dell’esistenza di un delitto e di un castigo, “io so solo tirare calci ad un pallone, e stai certo come l’unico calcio che non tirerò mai è quello alla fortuna. E visto che siamo tra noi voglio proprio dirtelo: Alessandro Buongiorno è un pirla, Graziano Pellè un precursore e una ispirazione”. Forse non sono così inspiegabili le scelte di Marco Verratti e Gabri Veiga; sono figlie di un mondo andatosi a collocare, nel tempo, nella parte opposta rispetto a Leonida e ai trecento spartani caduti alle Termopili in ossequio alle leggi di Sparta. L’ossequio alle leggi della storia calcio si sono perse probabilmente per sempre o forse un giorno rinasceranno, chissà. Per il momento ciò che rimane è la resa di un ragazzo di trentadue anni incapace di essere più grande del suo conto in banca. E’ finito il tempo in cui, per dirla all’Osvaldo Soriano, le storie di calcio erano “risate e pianti, pene ed esaltazioni”, ora siamo nel tempo di Al Khelaifi e della resa incondizionata. “Un tempo-direbbe il grande Soriano - totalitario e fascista che induce gli imbecilli a credersi molto furbi”. Che volete che vi dica… speriamo ci sia un altro tempo.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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