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columnist
“Il mondo non è comprensibile,
ma è abbracciabile”.
Martin Bauber
“Tanto per cominciare il Torino non è una piccola squadra! Al mio Paese tutti conoscono la storia del Grande Torino”. Il Paese a cui si riferisce Josè Mourinho, autore di questa risposta ad una domanda di Piero Chiambretti, è il Portogallo, che di cose grandi davvero se ne intende. Ogni giorno mandato in terra da Dio i lusitani si affacciano sulla maestosità dell’Oceano Atlantico, loro storico scrigno di sfide, tragedie e visioni. La memoria, se coltivata, ha davvero grandi insegnamenti da porgerci. Come in una carezza riservata ai momenti difficili, quando si pensa che ogni cosa fatta o da farsi sia completamente inutile. Il Grande Torino, è noto a tutti, lasciò tragicamente questo mondo durante il ritorno da un compiuto gesto di generosità. E’ difficile capire se, nel ricordo collettivo portoghese, sono state le gesta sportive di quella magnifica squadra o il momento di generosità regalato ad un loro giocatore a fine carriera a far perdurare il racconto di una squadra sembrata uscita dal nulla di una ventennio di dittatura e di rovinose macerie di una guerra dai connotati crudeli e ancestrali. Ma la cosa importante da sottolineare è come quella squadra di calcio contribuì alla creazione di un nuovo capitale sociale, fatto di scambi di emozioni empatiche. Scambi avvenuti in modo totalmente gratuito. Questo portò capitan Valentino e i suoi sfortunati compagni a concludere la loro avventura terrena di fronte all’immensità dell’Oceano Mare. Qualcuno ha detto che per stare bene dobbiamo dare, perché è così che siamo stati progettati. E per quel che poco che vale la mia esperienza, ho potuto verificare come le cose stiano veramente così. E a dirla con le parole di Victor Hugo, “mentre la tasca si svuota il cuore si riempie”. Quando il Grande Torino prende quell’aereo maledetto per Lisbona, lascia un messaggio scritto sulle pietre senza età: prende la bontà e la regala a chi non sa donare. A noi, che oggi sembriamo aver dimenticato qualsiasi cosa non sia il nostro piccolo o grande interesse. Potrebbe apparire un concetto retorico, questo, ma provate a dirlo al cuore e alla memoria dei lusitani. “Siediti al sole. Abdica e sii il re di te stesso”, scrive Fernando Pessoa, e credo questa sia la sensazione di quando ci si approccia a vedere il bello, che è la vera sorpresa del creato.
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A me capitava ad Old Trafford, ogni qual volta aspettavo l’entrata in campo di George Best, un sogno che si materializzava sempre in realtà. Lo Special One, tenendo a sottolineare come l’idea del Torino calcio non potrà mai essere distrutta o depauperata nel cuore e nella mente di chi ama, ma ama veramente, il calcio, ci prefigura un perché quel lampo di luce granata sia stato così amato. Non per la sua tragica fine, come sovente si potrebbe pensare. Valentino Mazzola e compagni agl’occhi delle persone accorse all’Estadio Nacional do Jamor di Lisbona dovettero essere, immagino, come l’infinito diventato improvvisamente finito. Come il desiderio impossibile, diventato possibile. Erano lì, i giocatori del Toro, e deve essere stata granitica, negli increduli e felici spettatori, la sensazione di poter afferrare per un attimo anche quello che non può essere. Deve essere stato proprio così, altrimenti non si spiegano quelle parole di Josè Mourinho. Quanto manca oggi quell’impossibile che diventa possibile, persi come siamo nella radicalità dell’eccesso di pragmatismo, mentre ci rimproverano quanto si sia preteso troppo nelle aspettative delle nostre esistenze. Tutto ora ci ricorda, e a tratti addirittura ci impone, la convenienza di una riduzione dell’ambizione, persino nel nostro tempo libero. Non dobbiamo aspirare a niente, perché tutto per noi è stato programmato. Persino le privazioni. Un curioso scherzo del destino ha messo in competizione porzioni di mondo inconciliabili, rendendoci avversari piuttosto che rappresentazioni di legittime diversità, da esplorare e non da espropriare. Le esigenze dei fatturati, di mercati creati per esigenze artificiali, hanno dato prima la sensazione di una pioggia in fondo innocua, ma che ora sta per diventare sempre di più tempesta. La storia di chi non vuole sacrificare il suo mondo sull’altare dell’incomprensibile, sta per essere messa da parte in nome di superleghe partorite da menti che non so se definire più avide o malate.
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Vedrete che troveranno, oh se li troveranno, gente disposta a mettere i numeri al posto giusto, per spiegare e giustificare il nuovo mondo. Intanto, mentre si aspetta tale avvento, enclave di tifosi continuano a rimanere aggrappati al sogno di ieri. Quando poteva essere normale, nel corso di una stagione calcistica intensa, mantenere una promessa e prendere un aereo per portare un po’ di conforto economico ad un giocatore giunto al capolinea della sua carriera. Non erano tempi di munifici diritti tv, sponsor ricchi fino all’inverosimile e procuratori pronti a monetizzare pure l’aria di uno stadio, quelli; i giocatori vivevano l’arco della loro carriera, non longeva come può esserne una di oggi, certo un po’ più agiati del resto del mondo, ma con una voragine di inquietudine ed incertezza ad attenderli il giorno dopo il fissare i loro scarpini al fatidico chiodo. Valentino Mazzola decide di donare a Francisco Ferreira un’ultima occasione di monetizzare il talento calcistico ricevuto gratuitamente da Dio, attraverso l’incasso a lui devoluto dell’amichevole che gli “Invincibili” giocano contro il suo Benfica. Non ci sono particolari sponsor, o divieti, o televisioni a negare la possibilità dello svolgimento dell’evento. E’ un calcio fatto da veri uomini di sport, quello. Dove gli uomini di sport hanno la possibilità di darsi una stretta di mano e una parola, e darsi un aiuto nel nome di una comune passione fatta diventare dal fato una professione. Tutto ciò che sta attorno i giocatori conta, ovvio, ma nella giusta misura. Era il tempo in cui non una multinazionale, ma il proprietario di alcune macellerie, faceva rinascere il Manchester United. Un macellaio che conosceva la città mancuniana fino al profondo delle sue viscere. Perché era parte di quelle viscere. Molti decenni dopo i suoi discendenti ed eredi, venderanno a degli americani più di una squadra, venderanno l’anima di una città. Venduta l’anima si rimane attoniti, e si comincia a vagare nel tentativo di recuperarla. Voglio esser ottimista: un giorno noi mancuniani quell’anima la recupereremo. Perché i tifosi non dimenticano, e perché tutto, prima o poi, ci si prospetta come un ritorno. Ma se anche a Piero Chiambretti, noto tifoso granata doc, deve essere un portoghese a ricordargli come la sua squadra non sia piccola, ma memoria del mondo pronta a rinascere, allora forse la depressione in Italia deve aver messo veramente piede. Perché rinascere e vincere, nello sport come nella vita, deve avere come premessa necessaria la consapevolezza di avere un valore. E il Torino lo ha, e non perché ci credono i suoi tifosi, ma perché lo ha oggettivamente. E’ la sfida dell’immaginazione contro i numeri perfetti della Juventus, e’ quella tasca che si svuota mentre il cuore si riempie.
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Il Toro è uno dei cuori pulsanti dell’animus italico, che qualcuno vorrebbe estinguere, ma che ancora si ostina ad esistere. Nonostante lo spread, nonostante il debito pubblico, nonostante la crisi economica, nonostante il tradimento di gran parte di una classe dirigente. Il Toro si ostina ad esistere perché è Italia in un modo tale, come forse nemmeno lui è pienamente conoscente. E resiste tenace elevato a monito positivo, come sole davanti al quale in ogni momento ci si potrebbe sedere. Perché come ha detto e scritto quella persona meravigliosa che è Eraldo Pecci, il Toro non può perdere, anche qualora dovesse perdere sul campo. Josè Mourinho, persona profonda nel suo essere singolare e contraddittorio, lo ha voluto improvvisamente ricordare. Quando un tifoso/lettore(che ringrazio) mi ha ricordato questa considerazione dell’allenatore portoghese, confesso di essermi commosso. Perché amo l’Italia e considero il Toro un po’ come la sua Lampada di Aladino. Una lampada che non realizza desideri, ma li conserva. Un giorno ritornerà il suo momento, ma per ora dalle soglie dell’Oceano Mare qualcuno continua a parlare della sua grandezza e una targa posta all’Estadio Nacional in memoria di quella partita donata dagli Invincibili recita: “eterna amizade”. Vi pare poco?
Di Anthony Weatherill
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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