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NAPLES, ITALY - MAY 07: A SSC Napoli fan shows their support with a flag outside the stadium prior to the Serie A match between SSC Napoli and ACF Fiorentina at Stadio Diego Armando Maradona on May 07, 2023 in Naples, Italy. (Photo by Francesco Pecoraro/Getty Images)
“Pulcinella si denigra e si riscatta con la felicità che trasmette”.
Raffaele La Capria
Lo sport riesce a dare delle sensazioni inedite rispetto alla logica stringente e cinica sovente offerta dall’esistenza, tra tutti gli sport il calcio è l’avvenimento che più di ogni altro riesce a sublimare fino a quasi l’infinito le suddette sensazioni inedite. Vedi la tua squadra del cuore afferrare il tricolore e istintivamente mandi in soffitta, dopo averlo mandato a quel paese, il realismo granitico di George Orwell convinto come tutti noi si sia “impegnati in un gioco che non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, questo è tutto”. La vittoria sportiva è connessa al privato sentimento di serenità, anche se apparentemente appare come fenomeno di osmosi collettiva, e non chiede niente all’interpretazione futura se non il ricordo di un momento indescrivibile di gioia.
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Lo scudetto vinto dal Napoli al momento è oggetto di molte interpretazioni, come è giusto che sia, ma l’impressione concettuale restituita è quella di essere giunti vivi, da parte dei tifosi azzurri, alla fine di una guerra assai lunga. Chiedersi di quale guerra si stia parlando vorrebbe dire aver vissuto in un altro Paese o quantomeno essere stati distratti nell’evolversi delle sue vicende, perché solo quando vince il Napoli, per esempio, si sta per giorni a fare interminabili analisi esistenziali e sociologiche sulle modalità dei festeggiamenti dei suoi tifosi. In questo c’è una certa curiosità etnica e anche una variante vagamente razzista o di autoreferenziale supremazia culturale. Si fatica ad uscire mentalmente dal “triangolo delle Bermude” del calcio italiano, dove tutto diventa normale, festeggiamenti compresi, se il campionato lo vincono Inter, Milan o Juventus. Così la vittoria del Napoli, anche per colpa della pubblicistica e degli intellettuali campani, finisce per diventare una forma di riscatto cittadino non si capisce bene da cosa.
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Il calcio è esplosione di un momento, ed è molto lontano dall’essere “l’eudaimonia” di Aristotele, ovvero il raggiungimento di una buona vita foriera di uno stato permanente di benessere. In una vittoria sportiva non c’è crescita psicologica, ma solo ristoro momentaneo dalle umane fatiche. Il domani riserva sempre la ripartenza dai problemi del giorno prima della vittoria, è il ripresentarsi alla porta dell’atavico dna di una tradizione. Nell’atavico c’è il tempo eterno che scorre ed in esso è un ossimoro parlare di riscatto, invece molto presente nel momento dell’emergenza. In quest’ultima cosa si può provare ad individuare la via della resurrezione, lievito di ogni tipo di sviluppo epico. Resta il fatto, però, come una lunga guerra si sia conclusa, con un risultato epistemologico talmente rilevante da far ritornare in mente l’avventura imprenditoriale della famiglia Florio a Palermo: al sud si può fare impresa altamente performante e riconoscibile anche a livello internazionale.
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Chi scrive non ha mai lesinato critiche ad Aurelio De Laurentiis (e continuerò a farle ogni volta che lo riterrò opportuno), ma bisogna riconoscere nell’affermazione del Napoli un capolavoro di cultura imprenditoriale difficile anche solo da ipotizzare all’arrivo del produttore cinematografico nel capoluogo campano. La chimera non era quella di vincere contro il nord, ma smentire una volta per tutte l’approccio miracolistico/superstizioso alla “San Gennaro”, in cui solo il profeta Diego Armando Maradona è autorizzato a fare miracoli, e imporre finalmente l’idea del miracolo con il sano percorso “dell’aiutati che Dio ti aiuta”. È stata una svolta copernicana, un passare dallo studio della fattucchiera o del cartomante al “Credo” recitato dai cattolici, dove ogni sguardo rivolto alla mistica passa dall’assunzione di responsabilità. De Laurentiis in tempi relativamente brevi smentisce il pessimismo di meridionale di Giustino Fortunato, dimostrando come il “Cristo fermatosi ad Eboli” sia da sempre una stampella giustificativa per ogni disimpegno dall’ambizione da parte di generazioni di meridionali.
La vittoria del Napoli ha dimostrato in maniera plastica la bufala di un meridione condannato al disordine da un destino cinico e baro, e sta indicando una via interessante ad una intera classe politica del mezzogiorno, visto come, e su questo occorre essere molto chiari, si sia ancora molto lontani da un possibile riscatto di un territorio. L’attuale Presidente del Napoli è riuscito (e sta riuscendo) a fare impresa e a vincere in un contesto fondamentalmente poco incline a mettersi in discussione, convinto a ritenere le sue storiche criticità un elemento importante della sua forza culturale e del suo fascino noto a livello mondiale. Detto questo, e riconosciuti i giusti meriti di De Laurentiis, non sono d’accordo con chi in questi giorni sta parlando di una vittoria della squadra e non della città di Napoli, propugnando l’idea di una squadra di calcio astratta dal contesto dei suoi tifosi. Si tratta dell’ennesimo espediente portato avanti dalla filosofia neoliberista e finanziaria di svuotare il calcio dai suoi contenuti sociali, disconoscendo lo status di “imprenditoria atipica” dei club calcistici. Non si perde occasione di provare a dare legittimità al “bug” inserito nel calcio a partire dagli anni '90, quando la nascita della “Premier League” sancì il cambiamento strutturale e filosofico da lega calcistica a confraternita di interessi privati costituiti.
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De Laurentiis non ha mai fatto mistero di essere innamorato della spettacolarizzazione del calcio e dei mercanti nel tempio, e la disinvolta gestione congiunta del Napoli e del Bari ne è prova evidente. Sorprende la distrazione degli intellettuali campani, alcuni di questi molto influenti nella vita pubblica del Paese, di fronte ad un fenomeno che rasenta la slealtà sportiva e l’intreccio inquietante di interessi. Roberto Saviano, sempre molto attento ad additare episodi di immoralità pubblica o episodi di malaffare, ha ritenuto opportuno celebrare esclusivamente il trionfo del console De Laurentiis, dimenticandosi di sussurrargli all’orecchio di ricordarsi di essere mortale e di non poter utilizzare la vittoria per convincersi di potere fare o disporre del mondo a suo piacimento. L’esaltare il presidente del Napoli, da parte dei commentatori, come un corpo estraneo rispetto al tifo e all’animus della città, dispone al rischio di pensare alla gestione del calcio proposto dall’imprenditore cinematografico come unica via possibile della felicità pedatoria. Elevandolo a protagonista di una riuscita rivalsa del sud contro il nord, con parole spesso incorniciate in endecasillabi, Roberto Saviano e i suoi epigoni finiscono per dargli una inopportuna patina di condottiero e con il descrivere il meridione alla stessa stregua di un residuato segregazionista somigliante alla Louisiana di “12 Anni da Schiavo” di Steve McQueen.
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Il Napoli non ha vinto la guerra contro “la grande macchina che spinge le squadre del nord”, prefigurata da Saviano in una intervista rilasciata il dicembre scorso, ma in realtà ha sconfitto l’idea di affidare ai numeri del “Lotto” ogni sua idea di ambizione. La vittoria degli Azzurri è quella del “si può fare”, e può aiutare a sconfiggere la rassegnata accettazione dello stato di fatto espresso da Concetta Cupiello nel capolavoro di Edoardo de Filippo: “Lucariè, scetate songh’ e nnove”. Napoli si sveglia, specchiandosi nel suo golfo che sembra un acquarello esposto al Louvre, con l’aroma del suo caffè che invoca pause pensose e pacata quiete, con la sua vitalità a volte fraintesa a volte abbracciata, con il rimpianto mai sbiadito del regno che fu, con il rammarico di sentirsi eternamente sottovalutata, con la mania dell’improvvisazione nel suo codice genetico, con il chiasso delle marmitte e delle voci eco dei rioni, con un cielo eternamente sospeso in un acuto di “O Sole Mio”. A volte può capitare che la nottata passi, ma la città sa essere ironica e scanzonata come Eduardo De Filippo, uno dei suoi figli migliori, quando fu nominato Senatore a Vita: “non chiamatemi Senatore, ci ho messo una vita a diventare Eduardo”. Napule è, e non sarà uno scudetto, seppur importante, a farle dimenticare la sua anima e a rimuovere i suoi problemi.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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