“Vediamo a colori e pensiamo in bianco e nero”.
Loquor
Nell’ora più buia, ecco Ivan Juric
Torna Loquor, la rubrica di Carmelo Pennisi: "Ma l’attuale tecnico del Toro non è un uomo banale, e soprattutto ha la memoria sempre in tasca, pronta ad essere tirata fuori per essere mostrata".
Stephen Littleword
Se in una città nascono Toni Kucoc e Dino Radja, due autentiche leggende del basket mondiale di tutti i tempi, e nel raggio di 200 km si trovano Sebenico, Medjugorje e Mostar, allora è facile capire come in quel lembo di terra deve esserci davvero qualcosa di speciale, qualcosa in cui il mistero ha soffiato sopra e ha fatto nascere tragedie, miracoli, contraddizioni e poesia. Quando nell’agosto 1975 Ivan Juric viene al mondo a Spalato, ancora non sa quanto la vita gli riserverà tutto e il contrario di tutto. A 15 anni vede la più grande squadra di basket europea di sempre, la Jugoslavia di Drazen Petrovic (quelli che possono giocare alla pari con Magic Johnson, Larry Bird, Michael Jordan, ecc…), vincere in Argentina il campionato del mondo ed essere protagonista, nei festeggiamenti post finale, di un episodio che è uno degli atti finali di un Paese, la Federazione Jugoslava, ormai perso nello sgretolarsi giorno dopo giorno. L’inflazione è al 2000% (tecnicamente è iperinflazione), la disoccupazione cresce in modo inarrestabile, le fabbriche chiudono e gli investimenti esteri scappano dai Balcani preoccupati dalla fortissima instabilità politica.
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I soldi spesso sanno sempre prima delle analisi pensose ciò che sta realmente per accadere. Nella povertà generale ormai ogni ipotesi diventa possibile, e ogni ipotesi da lì a poco si concretizzerà in tristi fatti reali. Sul parquet mondiale di Buenos Aires la Jugoslavia si sta regalando, in quell’afoso agosto del 1990, un ultimo momento di unità e gioia prima della drammatica dissoluzione. In quei luoghi il basket è questione seria, molto più seria del calcio, e non è difficile immaginare l’adolescente Ivan Juric scendere per le strade della sua città a festeggiare il miracolo di aver vinto la finale contro i favoritissimi sovietici. L’Olimpiade di Barcellona è a soli due anni di distanza, e battere il “Dream Team” statunitense sembrerebbe essere una ipotesi realistica. Bisognerebbe resistere altri due anni, solo due anni, e quei ragazzi terribili scoperti e plasmati ad uno ad uno dal leggendario Mirko Novosel, nell’ambito del progetto jugoslavo di voler creare la squadra di basket più forte di sempre, potranno provare a realizzare un sogno impossibile.
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Ma quei due anni al traguardo vengono distrutti nel momento in cui sul parquet di Buenos Aires un giovane tifoso slavo irrompe sventolando la “Sahovnica”, simbolo storico della Croazia e icona degli indipendentisti croati di ogni tempo. Vlade Divac, grandissimo giocatore serbo, va subito incontro a quel ragazzo e gli strappa la bandiera dalle mani buttandola per terra. Fine dei due anni di attesa. In tutti i mezzi d’informazione della Croazia, o per immagine o per foto, quella scena viene mostrata e viene stigmatizzata da tutta l’opinione pubblica. In poche ore Vlade Divac non è più un eroe dello sport jugoslavo, ma semplicemente un provocatore serbo. A quel punto si rompe un’amicizia granitica e leggendaria, quella tra Vlade Divac e Drazen Petrovic. Non si parleranno mai più, e quella rottura sarà solo il prodromo più celebre del dramma jugoslavo che sfocerà in una delle più sanguinose guerre civili mai combattute nel continente europeo.
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Ivan Juric, come si è detto, ha solo 15 anni e tanto calcio da strada sulle sue spalle, ma è figlio di un signore che per difendere le istanze della Croazia ha perso il diritto di insegnare all’università e di scrivere articoli, perché fare terra bruciata attorno è da sempre uno dei metodi più usati per spegnere il dissenso. Quando ha visto la scena di Buenos Aires non deve essergli risultato difficile, seppur in giovane età, immaginarne le conseguenze. “Tante cose mi sono rimaste impresse della guerra – ha raccontato in seguito in un’intervista -, come i vecchi e i bambini che scappavano da Vukovar con due cose in mano, mentre le milizie serbe distruggevano qualsiasi cosa e uccidevano ogni maschio in età da combattimento. E poi l’emozione di quando abbiamo liberato la parte occupata della Croazia”. Ma l’attuale tecnico del Toro non è un uomo banale, e soprattutto ha la memoria sempre in tasca, pronta ad essere tirata fuori per essere mostrata. “Noi croati non siamo riusciti a creare quello Stato per cui molti ragazzi hanno lasciato la vita sul campo di battaglia. Dopo la guerra c’è stata una privatizzazione selvaggia, e poche persone si sono arricchite in modo allucinante. Non siamo riusciti a fare un Paese giusto e onesto. Non siamo riusciti a fare un passo in avanti nell’onestà”. Lo senti parlare Juric, e un po’ ti vergogni di aver pensato maliziosamente come il suo sfogo del dopo Fiorentina-Torino, sul mancato mercato del club granata, potesse essere dettato da una sua voglia di creare un casus belli per essere licenziato. Un uomo che un giorno ha detto, senza mezzi termini, come “il calcio sia purezza, e che se si è perso il valore del gioco è per colpa di tutti noi che ci lavoriamo”, non è certo l’archetipo di colui alla perenne ricerca di sotterfugi per alimentare proprie strategie egoistiche. “Mi piace leggere. Soprattutto libri che ti costringono a pensare”, e qui entriamo davvero nel campo della persona atipica, controcorrente rispetto ad un’Era dove il pensare è stato sostituito dall’allineamento, e dove i diritti sono stati confusi con il conformismo. Juric sostiene da sempre come la mentalità, quindi l’idea che si ha di sé, sia più importante di una buona tattica e non ha mai paura di dire quel che pensa, come quando durante la sua esperienza a Crotone, disse in un’intervista ad una tv locale che la città di Pitagora forse “è un po’ allo sfascio e si è lasciata andare, costringendo i suoi giovani migliori ad emigrare. È assurdo come nel 2016 spesso manchi l’acqua nelle case. Tutti in questa città sembrano essersi arresi. Nessuno contesta, nessuno scende in strada per protestare contro questo degrado. Incredibile” (memorabile l’espressione imbarazzata del viso dell’intervistatrice di fronte all’invettiva).
Deve essere un vizio di famiglia quello del non tirarsi indietro, quella di non rimanere indifferenti anche se tranquillamente ci si potrebbe voltare dall’altra parte perché tanto si vive nella tranquilla bolla dorata del calcio. Juric proprio non ce la fa ad essere ipocrita, ed ha tutto quel suo modo di essere diretto come solo gli slavi sanno esserlo che può nello stesso tempo irritare e sorprendere, per una cultura italiana incline ad educare alle perifrasi edulcorate fin da quando si è nella culla. È visionario e suggestivo l’attuale tecnico del Toro, e a più riprese ha fatto capire come nella sua esperienza granata ambirebbe ad avere un ruolo ampio alla Alex Ferguson, perché è sua intenzione fornire al club di Urbano Cairo le giuste coordinate per farlo ritornare grande. Non ha pretese di avere giocatori costosi, anzi ha ribadito di volerli giovani e da formare, perché si fida molto del suo lavoro e di un antico proverbio istriano che recita come in fondo “l’acqua nel mare non manca mai”. Giunge al Toro sorprendendo un po’ tutto il mondo del calcio, visto come si trovi in un momento della carriera in cui potrebbe scegliere lidi più sicuri e venti più calmi, rispetto ad un club che viene da due anni terribili e dove ormai la contestazione dei tifosi verso Urbano Cairo ha assunto contorni da vera e propria rivolta. Ma il tecnico croato non si preoccupa nemmeno quando il giocatore simbolo, Andrea Belotti, si rifiuta di firmare il rinnovo del contratto, sancendo in modo probabilmente definitivo la sua volontà di lasciare Torino al termine della stagione.
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Il Toro si trova in una delle ore più buie della sua storia, e la considerazione dei suoi tifosi sul fatto che Belotti farà bene a svestire la maglia granata (“Cairo lo ha tradito molte volte”), deve ricordargli la rassegnazione dei crotonesi per la cronica mancanza d’acqua. Ma se si è vissuti in una guerra, specie in giovane età, si è consci quanto valore ci sia nel ricostruire ciò che è andato distrutto, si ha ben chiaro nell’anima il concetto del non arrendersi mai. E allora Juric si butta a capofitto nella disperazione del Toro, alla ricerca di un bandolo della matassa che in due anni ha bruciato ben quattro allenatori. E accade il miracolo di una squadra che improvvisamente ritrova un gioco ed un’anima, con ragazzi dati per persi con la voglia di tornare a provare a calciare un pallone per realizzare idee, e finanche utopie. Perché il calcio e la vita sono esattamente questo. Ivan Juric, siatene certi, sta per realizzare qualcosa che resterà nella storia della società granata, la sensazione è quella di essere all’inizio della strada della ritrovata serenità. “Mi sono commosso quando il Presidente Tudjman ha baciato la bandiera Croata. Ma oggi penso che la guerra si può e si deve evitare”. Sono parole, queste del nuovo condottiero granata, a definire un pensiero sempre in movimento. Nel mondo di Juric non c’è spazio per piegare le intenzioni su ciò che è andato male, ma solo sul pensare a ciò che potrebbe andar bene. Essere pronti sempre a cogliere un nuovo miracolo è l’essenza del calcio, del mondo, della vita. Tutto il resto è noia, stantia conversazione e un buco di una granata lasciato sulla parete di una casa di Mostar a tormentare sovente le mie notti.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.
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