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Loquor

Olimpiadi di cocaina

Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 
Torna l'appuntamento con 'Loquor', la rubrica di Carmelo Pennisi

Incontrare uno specchio in frantumi

e non riconoscersi più in nulla

Massimo Recalcati

“La nostra sorte è di colare a picco, di rispondere al richiamo del baratro”, scrive Emil Cioran, aggiungendo come da esso, dal baratro, “scorgiamo il nostro nulla che i nostri sollazzi ci velano per un istante”. Per il filosofo rumeno tutto fa parte della tentazione di esistere, di fare azioni insensate di continuo nell’inconscia volontà di non voler guardare negli occhi il nostro nulla. Quando leggi la notizia di un atleta australiano arrestato dalla polizia francese per aver tentato di comprare cocaina da un diciassettenne, e questo nel corso della più alta manifestazione e rappresentazione dello sport quali sono le Olimpiadi, capisci come qualcosa non stia funzionando nel valzer del dibattito stralunato che passa da una cerimonia d’apertura controversa all’esibire in modo intellettualmente barcollante l’inclusione delle varietà di genere. Ha ragione Cioran, siamo in un baratro talmente profondo che solo l’edonismo psicologico del politicamente corretto può far ritenere sul serio di stare vivendo una vita eticamente e moralmente corretta, rispetto ad un comune sentire ridotto oramai ad uno spot continuo da Ong.

In una Parigi vestita a “Cinque Cerchi”, ridondante nel volerti farti capire a tutti costi dell’importanza della celebrazione di un mito, questa ennesima stonatura di cronaca giudiziaria fa capire come qualcosa si sia rotto nello sport contemporaneo, a volte mantenuto artificialmente in vita più dalla bramosia del potere e dei soldi che non dalla sua funzione celebrativa e mitologica. Uno sportivo di alto livello, uno da agonismo di Olimpia, teoricamente un esempio per i giovani, dimostra ad un diciassettenne già immerso in una vita disperata, come oltre la sua disperazione esista solo altra disperazione. Altro nulla in cui immergersi, convincendo definitivamente come dal dirupo si sia deciso di saltare da tempo. D’altronde lo spettacolo offerto dalla politica e dalle istituzioni sportive è desolante, specie quando ritengono di poter nascondere le loro malefatte con operazioni di cosmesi da immagine pubblica.

Non ci si vergogna a pensare o a progettare cose sporche, bensì quando si ha la sensazione che gli altri ci attribuiscano tali pensieri sporchi, questo è lo spartiacque tracciato dal mondo moderno sin dall’inizio del secolo scorso, dove la propaganda nazista riuscì nell’impresa di far credere ad un intero popolo di stare vivendo una epopea. Immersi nell’attuale carnevale del dibattito sull’inclusività, non stiamo più riuscendo a vedere lo sport alle prese con il perduto amore, sempre più lontano dal cortile e dalla strada, areopaghi di una infanzia e di una adolescenza in un tempo in cui attraverso il gioco si costruivano teoremi di rapporti, con il bene e il male ad iniziare, alla fine, ad interrogare giovani menti. L’attuale modernità è un gigantesco libello sul “cupio dissolvi”, una costrizione al partecipare al valzer della cupidigia, fosse quello del denaro o del potere. Il Cio e la Fifa, tanto per parlare delle due più grandi e importanti organizzazioni dello sport, da tempo asserviscono platee di menti ammaestrate al reality show, le coinvolgono per arrivare ad un guadagno oramai da tempo giunto all’illecito misto allo spudorato. Li vedi i maggiorenti dello sport correre a farsi filmare o fotografare con gli atleti di successo, raccattando audience sulle loro persone, rievocando trame quasi “vampiresche”.

Thomas Bach e Gianni Infantino parlano solo di ricavi e qualche volta di diritti, ma quest’ultimi più che una convinzione sono un ossequio a chi ha deciso cosa noi si debba pensare o credere. Qualcuno, in un evidente calo di ottimismo misto a pragmatismo secolare, ha detto che “lo sport non costruisce la personalità, ma la rivela”, postulando lo sport come un termometro passivo più che come occasione di riscattare e superare i nostri limiti, e cominciare così una vita sotto altre prospettive. Sono concetti, questi, quasi di resa di fronte ad un male oscuro determinato a ghermire la società contemporanea. Ma poi ci sono gli atleti, con le loro biografie, i loro sacrifici, le loro idee, le loro personalità, e allora, se si riesce a superare la cortina fumogena sparsa da chi da dallo sport vuole lucrare qualsiasi cosa basta che sia lucro, tutto pare ritornare chiaro ed emozionante. Novack Djokovic compie l’ultimo punto del suo glorioso destino, e si inginocchia sulla polvere rossa del “Philippe-Chartrier” facendosi il segno della croce dei “Criastiano-Ortodossi”, e poi baciando sulla sua rossa maglietta lo stemma della Serbia, e poi arrampicandosi tra le tribune per andare ad abbracciare sua moglie e i suoi figli. In quel momento “Dio, Patria e Famiglia” cessano di essere uno slogan politico e tornano nell’alveo naturale dei sentimenti primari del mondo di ogni tempo, tornando ai fasti dello spirito mitologico dell’Olimpia dell’Antica Grecia: si gareggiava per l’orgoglio e la gloria della tua comunità, per rendere fiera la tua famiglia, e per rispettare il mistero degli dei dell’Olimpo.

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C’è niente di più importante? C’è niente di più efficace per combattere il baratro di cui parla Emil Cioran? Lo sport, quando non è mistificato dagli Emmanuel Macron, dai Gianni Infantino, dai Thomas Bach, dona la speranza di avere certamente un destino dove prima o poi si ritornerà nella polvere, ma che prima di questo ci aspetta il diritto/dovere di lasciare un segno della nostra eternità. E’ questo che spera lo sport, è questo dall’inizio dei tempi l’auspicio del nostro Creatore. Lo sport manda bagliori di segni importanti e quasi nascosti, fino a che non li cattura una telecamera avida di cronaca con cui tenere incollati davanti alla tv. Succede quindi di vedere manifestazioni di affettuosa paternità nel dopogara di atleti felici di aver raggiunto una medaglia. Corrono ad abbracciare i loro piccoli figli, e tutto diviene un incredibile spot della rivalutazione della figura paterna, osteggiata e mortificata come non mai culturalmente, socialmente e antropologicamente con l’ingresso nel terzo millennio. “C’è una domanda di padre”, per dirla alla Massimo Recalcati, che ritorna ai figli come necessità di un sano conflitto vincitore dell’odio e organizza la violenza comunque insita nella natura umana. Qualcosa deve pur restituire la dignità del nostro essere uomini. Siamo velocità, siamo sforzo, siamo resistenza, la rassegnazione invece è intrinsecamente una gabola del maleficio: lo sconfitto che stringe la mano al vincitore alla fine di una gara è lo scrivere nelle stelle la data di un prossimo appuntamento, quello in cui ci si riproverà. Non può esserci ovviamente felicità nella sconfitta, ma negli atleti c’è la gioia della presenza, che non è un battello a scorrere sulla Senna ma il suono gravido di promesse dello starter di una partenza, laddove l’attesa si tramuta improvvisamente nell’inizio di un nuovo capitolo della tua storia. No, lo sport non merita il malaffare, il riquadro del “Gatto e la Volpe”, lo squallore dell’atleta che in un anfratto di una via di Parigi collude in squallore con un diciassettenne sconfitto prima ancora di sentire il colpo dello starter.

Lo sport merita di guardare il cielo, accarezzando gli innocenti e concedendo sempre una chance ai colpevoli. Novak Djokovic, uno che rimarrà per sempre inciso nelle pietre senza età dello sport, rammenta spesso come i suoi colpi nel gioco dai “guanti bianchi” siano nati sotto il rumore delle bombe sganciate a Belgrado dagli aerei della Nato nel 1999. C’è qualcosa nella vita a spingerci continuamente verso la deflagrazione, ma poi… poi c’è anche una cosa come lo sport,e non riusciranno, potete crederci, a farlo smarrire in una resa da polvere bianca in una sordida stradina parigina. Siamo e saremo continuamente con la possibilità di fare meglio. A volte ci sono giorni in cui le speranze si disperdono, ma continuo a tifare per esse. Mi riscopro tenace, e lo devo anche allo sport.

 

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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