“Voglio metterti un buon fegato italiano
columnist
Patria mia
e farti ritornare un uomo”
Ernest Hemingway
Chissà quando comincia la storia d’amore che ci lega alla vita, chissà quando cominciamo a percepire il mondo come l’unica occasione di fuggire da nulla. Michel Odent, un noto ginecologo francese, sostiene che “la salute dell’individuo inizia nel grembo materno”, perché è dalla nona settimana che il feto comincia ad essere multi ricettivo, è da quel momento che probabilmente si stabiliscono le qualità di un individuo. E, probabilmente, quelle qualità saranno l’asse portante di tutte le sue scelte. Nelle prime nove settimane il feto sviluppa il tatto, che gli consente di percepire i suoni prima che si sviluppi l’organo dell’udito. È come se la natura ci avvertisse in anticipo che le cose vere le ascolteremo toccandole, fosse con le mani, fosse con il cuore. Perché nasciamo per “sentire” le cose, e siamo inquieti, a volte persino devastati, quando qualcosa o qualcuno blocca il flusso dell’ascolto.
Una volta bloccato il flusso dell’ascolto, uno volta lasciato spazio a tutti gli altri sensi, non riusciamo a sentire più nulla, e rimane solo una polidipsia di vita, difficile da estinguere, complicata da riconoscere. Beviamo, e beviamo, ma alla fine vorremmo sempre un altro sorso d’acqua. Questo tipo di persone stanno avendo il sopravvento in questa contemporaneità, sono diventate élite. E si sono, o si stanno, appropriando di tutto ciò che ha un valore universale, scatenando continui processi di rimozione d’identità. Deve deflagrare tutto, perché tutto sia ricostruito nel nome di niente e di nessuno, se non di qualche nuova ed ennesima strategia di marketing. Vendere e comprare, questo è il nuovo paradigma. Eppure lo sport è nato proprio per far sentire, laddove l’udito è diventato precario.
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Vincere o perdere, e scendere in strada, nei bar, nelle osterie, a sfogare la delusione o la gioia. Incontrarsi e riconoscersi perché si è sentiti la stessa cosa. Quanto avremmo bisogno, noi italiani, in questo momento di sentire qualcosa, di ritrovarci grazie a uno di noi che finalmente ce l’ha fatta. Molti, troppi, a ricordarci continuamente di essere sull’orlo di un disastro, di essere diventati completamente incapaci di interpretare il mondo. Meglio pensino altri ad interpretarli per noi, magari francesi o tedeschi. Queste critiche stordiscono e portano oblio. Il 12 settembre del 1979 un tipo strano e dai gesti inquieti scatta dal blocco di partenza della quarta corsia dello “Stadio Olimpico Universitario” di Città del Messico, che si trova a 2.248 metri di altitudine. Lascia quel blocco di partenza per provare a volare più veloce di Tommie Smith, uno dei simboli di tutto il novecento, con quel suo pugno chiuso alzato in segno di protesta e di resilienza sul podio più alto della premiazione olimpica della gara dei duecento metri. Roba per cuori e muscoli forti, spartito suonato solo da chi sa veramente sentire. Pietro Mennea lascia quel blocco perché vuole afferrare, per portarlo giù, il 19,83 imposto su quella pista dall’atleta texano, che gli è valso un oro olimpico di cui non è mai riuscito a goderne appieno. Quel suo essere nero, quel suo essere del sud, lo portano a mostrare ribellione di fronte all’inno nazionale e bandiera americana salita sul punto più alto dello stadio olimpico. Mennea è del sud, ed è basso e a tratti storto. Non sa ancora cosa succederà quando saluta il blocco di partenza della quarta corsia, ha solo speranze con sé. È un meridionale, e quindi da sempre vive la condizione di chi, in fondo, se anche perde lo può accettare come un compito affidatogli dal destino: i meridionali non possono vincere. Mai. Eppure scatta da quel blocco convinto come una nazione intera sia dietro di lui perché ammirata da un suo figlio intento a sconfiggere i tanti luoghi comuni sugli italiani. I mediterranei possono farsi largo solo dove c’è da mostrare fatica, che non richiede muscoli setosi e gesti eleganti, ma solo capacità di sopportare. Si dedicassero al fondo, e lasciassero la nobiltà di uno sprint alle nazioni più avanzate, a quelle destinate per diritto naturale a dominare il mondo. I primi metri devono essere stati terribili, l’altitudine, eccessiva per la performance di uno sforzo fisico, fa spingere meno ossigeno dai polmoni al sangue. Ci vorrebbe dell’ossigeno supplementare che non c’è, eppure l’atleta di Barletta miracolosamente lo trova e ferma il cronometro a 19,72: è record del mondo sui 200 metri. Un record del mondo che ha resistito ben 17 anni, un’era geologica per gli sport di velocità. Un bianco normodotato, basso di statura, nato e cresciuto in un luogo del mondo dove parlare di strutture sportive è quasi come parlare del mito di Atlantide. Eppure lascia quel blocco di partenza perché vuole sentire e farci sentire qualcosa. L’Italia è su quella pista nelle alture messicane, ed è ancora quel Paese figlio e orgoglioso della sua storia, che le madri facevano sentire ai figli fin dalle prime nove settimane dal concepimento.
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È il periodo in cui l’Italia si va a prendere la Coppa Davis in Cile, in cui ci sono gli ori olimpici di Sara Simeoni, Gabriella Dorio, Pietro Mennea. E come dimenticare la vittoria dei mondiali dell’82, che solo i giocatori del Brasile a distanza di anni riescono a riconoscere come legittima (“per tutta la partita l’Italia non ci ha dato il tempo di impostare il nostro gioco, di fare piani, di piegarla al nostro ritmo”, ricordò un giorno Paulo Roberto Falcao). Perché c’è sempre voglia, da parte del mondo intero, di minimizzare e di consegnare al caso le nostre cose. Dobbiamo solo vestire e far da mangiare il globo, perché essere poco più che sarti (mi perdonino i nostri grandi stilisti) e poco più di nostra madre intenta a fare della splendida pasta fresca nelle albe della domeniche di famiglia (mi perdonino i nostri chef stellati), sono l’unica via che tutti sono disposti a concederci. Con un mestolo e una forbice mica si può dominare il mondo. E poi c’è il mistero antropologico/culturale in cui noi italiani pensiamo agl’altri che ci giudicano come ad un’entità superiore, qualcosa a cui dovremmo prestare parecchia attenzione, perché assolutamente dovremmo sforzarci di diventare come questi altri, che tutto hanno capito del vero andamento del mondo. E allora, ad un certo punto, si è persa la fiducia nel mantenere le cose così come ce le avevano consegnate, e magari anche di avere una qualche visione di come continuare a svilupparle. Si è perso il contatto con la nostra storia, persi ad inseguire dei miti a noi sconosciuti, fino al punto di esserci indifferenti. Il legame originario con la vita si sfalda, e non riusciamo più nemmeno a ricordare i contorni di una Itaca in cui fare ritorno dopo vent’anni di guerra e peripezie varie.
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Vogliamo stadi nuovi, che non riescono mai a prendere vita perché forse abbiamo dimenticato la ragione nostra di quella vita. Perché andavamo allo stadio? Chissà se c’è ancora qualcuno in grado di raccontarcelo veramente, sarebbe un modo felice e particolarmente azzeccato per recuperare il “noi stessi” formatisi quando sentivamo con il tatto, e nel ventre materno giungevano i suoni e i ricordi di tutte le generazioni precedenti alla nostra prossima nascita. Sono, questi, i giorni del terrore perché l’incognita sanitaria ed economica ci stanno facendo piegare sulle ginocchia. A tratti sembra siamo tutti diventati incapaci di immaginarci un futuro, convinti di essere solo dei naufraghi del presente. “Guarda che gestisci la rappresentazione di un’idea, poi semmai è un’occasione di fatturato”, si potrebbe sussurrare ad un presidente di una squadra di calcio. Ma ascolterebbe? Ricorderebbe ancora il tatto con cui ascoltava i suoni nella nona settimana da quando i suoi genitori lo sognarono? Ma non voglio demordere e spero, perché tra qualche mese ci saranno le olimpiadi e, ne sono sicuro, starò impalato davanti al televisore auspicando di vedere una bandiera italiana salire dietro un nostro atleta assurto all’onore di salire su uno dei tre podi da medaglia. Sarà bello essere lì con lui/lei, perché con il cuore si può ancora fare, si può ancora recuperare il nostro senso. Dentro quel tricolore che salirà, c’è tutta la mia storia per la prima volta ascoltata nel ventre di mia madre. Come Mennea voglio essere tenace e presente sulla corsia della vita. Magari brutto, magari non apparentemente pronto a conquistare il mondo, ma sicuramente mai domo e assolutamente efficace. Voglio, insomma, essere italiano. E al diavolo chi pensa che non ne valga più la pena.
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Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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